Perché i suicidi in carcere?

suicidi1Dal confronto tra due periodi: il decennio 1960-69 e il decennio 2000-09, la frequenza dei suicidi tra i detenuti è più che triplicata, mentre la frequenza dei tentativi di suicidio è aumentata addirittura di 15 volte.

Negli anni dal 1960 al 1969 la presenza media nelle carceri era di 32.754 detenuti, i suicidi sono stati 100 e i tentativi di suicidio 302, pari a un tasso rispettivamente di 3,01 e 9,24 su 10.000. (media: 10 l’anno)

Negli anni dal 2000 al 2009 la presenza media è stata di 58.000 detenuti, i suicidi sono stati 736 e i tentativi di suicidio oltre 8.000, pari a un tasso rispettivamente di 10,32 e 142,94 su 10.000. (media: 56,6 suicidi l’anno). Le morti in generale sono circa 160 morti in generale l’anno. E sono in crescita!

Perché questa impennata verso l’alto dei suicidi? Lo spartiacque avviene nel 1986. Prima di allora la rabbia dei detenuti scagliava la violenza prodotta dalla carcerazione contro le cose della prigione: rivolte e distruzioni di suppellettili e mura; e contro i carcerieri: sequestro di guardie, scontro con le stesse.  

 Dopo il 1986, la rabbia dei detenuti, e la conseguente violenza, è stata indirizzata altrove: suicidi, tentati suicidi e atti di autolesionismo: oltre 10.000 l’anno.

Il punto di vista dei media e dell’opinione pubblica benpensante è entusiasta: sono cessate le rivolte, il carcere è stato “pacificato”. I corpi dei detenuti ne risultano massacrati, ma questo all’opinione pubblica non interessa granché!

Cosa ha fatto cambiare direzione all’espressione della rabbia dei prigionieri? È stata l’introduzione del carcere “premiale”. Prima il carcere erogava solo violenza e ne riceveva dai carcerati altrettanta. Ora il carcere eroga ancora tanta violenza ma anche premi, in cambio pretende che il carcerato rispetti il carcere e i carcerieri altrimenti perde i premi (permessi, sconti di pena, misure alternative, ecc.). Il prigioniero è così “costretto” a indirizzare la violenza, che ha maturato dentro, verso se stesso.

Il benpensante dirà: il sistema premiale ha tolto la violenza dal carcere (ha messo fine suicidi2alle rivolte), se fosse sincero dovrebbe riconoscere che il sistema premiale ha semplicemente indirizzato altrove la violenza del prigioniero: verso il proprio corpo.

I dati, osservati onestamente, ci dicono che, in termini di costi umani, la quantità di violenza è molto aumentata nelle carceri, ma si vede di meno!

Per questo affermiamo che il carcere non è riformabile!

 

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Un nuovo buon libro

Non è facile per me, non è né facile né tranquilla la lettura dei libri che raccontano le storie nelle quali mi sono trovato a vivere e agire. Non riesco, quasi mai, a riconoscermi nell’identità che ci viene cucita addosso da storici e giornalisti e che inondano librerie e schermi. I nostri percorsi di vita vengono riproposti e raccontati come se fossimo stati personalità esaltate, a volte impacciate, sempre in stridente contrasto con la realtà. Sono  fastidiose e intrigate le ricostruzioni del “momento in cui si facevano certe scelte”, quelle che hanno caratterizzato quel pezzo di storia di cui parliamo, storia che già nel titolo viene rivestita di caratteri negativi: “la stagione degli anni di piombo”. Al contrario i miei ricordi mi restituiscono quelle scelte in piena armonia col modo che avevamo scelto di vivere in questa società, non volendo più subire, in silenzio e passivi, oppressione e sfruttamento, arroganza dei potenti e devastazioni ambientali. Sono stati passaggi necessari e voluti, consapevolmente perseguiti da coloro che, partendo dalla frequentazione e poi dalla militanza in un comitato di fabbrica o di altro “posto di lavoro”, oppure in un collettivo di quartiere, praticando ribellioni e lotte, di rivendicazione in rivendicazione, di scontro in scontro, di battaglia in battaglia, con l’intervallo di denunce, arresti e manifestazioni per la liberazione degli arrestati, compivano quelle scelte che preparavano il terreno a scelte successive. Non c’era un salto o una rottura da un “certo tipo” di militanza a un’altra, perché ciascun passaggio si collocava all’interno della stessa linea di quel patto tra più generazioni, di quella dichiarazione di intenti dal sapore forte: la “trasformazione rivoluzionaria della società”. Quei passaggi e quelle scelte apparivano, dentro quel percorso, di una “normalità” solare, che solo la comprensione della natura dello scontro di classe di quel periodo storico può render ragione.

Arrivare a “fare certe scelte”, impratichirsi nell’organizzare la violenza o impugnare le armi, era un passaggio, tra i tanti, era il prodotto della volontà-non tradita- di voler trasformare l’esistente. Un approdo per nulla traumatico, bensì maturato volontariamente dentro una quantità enorme di emozioni, passioni, pensieri e fatti, che poi lo storico definisce “avvenimenti”.

Da queste sensazioni, più volte provate, è nata quella diffidenza nell’accostarmi alla lettura dei libri “sugli anni Settanta”. E non solo per le tante falsità, per gli stereotipi, i pregiudizi e le tesi complottiste, che pure costituiscono la materia di base della gran parte della saggistica sui cosiddetti “anni di piombo”. Tolte di mezzo le cialtronerie menzognere, resta comunque una gran differenza, penso, tra chi vive e agisce in un particolare periodo storico, intenso, a tinte forti, e chi cerca di indagarlo, conoscerlo e raccontarlo. Resta la difficoltà, a volte impossibilità di immedesimarsi nello stato d’animo, in quel motore di passioni, di chi compie “certe scelte”.

Eppure il mio carico di diffidenza cade e svanisce quando il racconto di quegli anni è realizzato da chi ha scelto la via della comprensione, prima ancora che della ricostruzione, della considerazione, alta, per quelle donne e uomini che di quegli avvenimenti sono stati gli autori.

StekkaMi riferisco a Davide Steccanella e al suo libro, da pochissimo dato alle stampe: “Gli anni della lotta armata” per i tipi di Bietti-Milano.

Sono 487 le pagine sulle quali scorre la «Cronologia di una rivoluzione mancata» (così il sottotitolo) di quel tratto di storia, pagine nelle quali ho potuto apprezzare la delicatezza e l’umanità con cui Davide si è avvicinato alle “ragioni” di ciascuna e ciascun compagno attori di quel conflitto armato.

Davide accompagna il lettore attraverso quegli anni, per me, maledettamente belli, ma di difficile approvazione, come fosse lo scorrere di pagine di cronaca di un ipotetico giornale lungo vent’anni, dal 1969 alla “caduta del muro di Berlino”, con breve incursione nel secolo corrente.

Non è una cronaca qualsiasi, è la cronaca degli avvenimenti che costituiscono la spina dorsale del tentativo di “assalto al cielo” di quegli anni.

Solo cronaca? No di certo! Però leggendo la cronologia, è proprio il susseguirsi di pratiche di un certo tipo, e del loro andamento ascendente, verso l’innalzamento dello scontro da parte di tutti i contendenti, che fornisce al lettore lo spessore e il radicamento di tutto quello che era in movimento.

Ciascuno di quei fatti potrebbe occupare pagine e pagine di storia. sono avvenimenti che avevano dietro di se un brulicare umano di idee, passioni, speranze, aspettative, relazioni umane e portavano con se, dopo avvenuti, una spinta per consolidare la convinzione, per correggere qua e là, portavano colossali cariche di critiche, di delusione, di fallimenti e infine lo sforzo per continuare.

Aiutano il lettore, in queste riflessioni, l’ampio corredo di note di approfondimento, predisposto da Davide, che permette di conoscere e di collocare ogni avvenimento dentro il quadro sociale e umano che l’ha prodotto, così come il profilo a tutto tondo delle compagne e dei compagni che agivano in quel contesto. Su queste persone, cosiddetti “personaggi”, qualche piccola inesattezza sembra essere inevitabile perfino per lo scrupoloso Davide; inesattezze, cui è ormai impossibile sfuggire data la smisurata quantità di materiale cartaceo e televisivo che reiterano numerosi “luoghi comuni”.

Il libro termina con l’intervista a Luca Colombo un compagno che è stato tra i fondatori di un’organizzazione armata, le FCC (formazioni comuniste combattenti), che si racconta, oltre trent’anni dopo e, pur esprimendo considerazioni molto distanti da quelle che ho maturato io, è pur sempre parte di ciò che ha sedimentato quel conflitto.

Un buon libro dunque, utile a chi non pensa di scopiazzare il lavoro del giudice né del prete ma impegnarsi, con atteggiamento faticoso e attento, in un percorso di conoscenza e di comprensione di un periodo storico necessario per capire l’oggi.

22 aprile 2013  
salvatore ricciardi

 

 

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Aprile 1970 e 1971, carcere San Vittore

Milano, carcere di San Vittore, aprile 1970
SanVitt-1…In questo clima, due dei sei raggi di San Vittore si ribellano in seguito al criminale episodio del 21 luglio in cui vengono lasciati morire bruciati tre detenuti. Ecco quello che dice un detenuto in una sua lettera clandestina, scritta il giorno dopo: “… la nostra cellula è andata distrutta, è successo l’inferno qui […] è cominciata la caccia e allora i detenuti venivano presi uno per volta e accompagnati a colpi di cinghie, bastoni, catene, calci, pugni e che altro dirti? Ti dico che sentivamo gli urli, per darti un’idea dovresti andare al macello dove sgozzano i maiali! Mi dicono che Braschi sia stato portato via di peso dai poliziotti ed è stato visto piangente e malconcio. Così pure Angelo. Lottare in queste condizioni è terribile, dillo ai compagni […] avverti gli avvocati politici per i compagni trasferiti […]. C’è stata una sola cosa positiva, il canto di “Bandiera Rossa”, cantato da tutti al completo. La radio borghese ha detto che “… la fatica e i segni della lotta si vedono sui volti e sulle divise degli agenti!” No: sulle ossa di quei disgraziati che sono nelle condizioni che immagini, alle celle […] l’oriente è rosso, ma qui è sempre più nero!

Milano, carcere di San Vittore aprile 1971.

Domenica 18 – lunedì 19 c’è stato qui a San Vittore lo sciopero della fame di tutti i detenuti san-vittore(compresa l’infermeria) per il nuovo codice, e – fatto ancor più notevole – l’astensione dal lavoro compatta (che invece l’anno scorso era morta sul nascere per l’intervento del comandante minacciante sanzioni e denunce): il fatto è notevole perché il lavoro è uno strumento di ricatto, di privilegio (quindi di divisione) e viene retribuito con dieci-quindicimila lire al mese!

Perciò vincendo il ricatto (sanzioni, perdita del posto) nello stesso tempo si mettono in allarme le autorità (se veramente si arrivasse ad un rifiuto generalizzato del lavoro si dovrebbe pagare un personale normale con salari normali!).    Le guardie poi – costrette a sostituire nei servizi interni i detenuti scioperanti – invece di prendersela coi detenuti come normale, hanno fatto casino anche loro e dieci sono stati trasferiti in carceri lontane (come Favignana, eccetera).

Il documento dello sciopero è stato consegnato all’onorevole Bucalossi presidente della commissione giustizia e recava le firme di circa settecento detenuti. Nei giorni dello sciopero le bocche di lupo erano coperte di striscioni e tatzebao ricavati da lenzuola e federe. Il direttore – per impedire uno sbocco violento – aveva tentato di gestire lui la protesta con un demagogico e paternalistico intervento e spalleggiato dai ruffiani aveva cercato di far passare un documento supplichevole e innocuo, facendosi lui garante dell’intervento presso le “autorità competenti” (risultato: un articoletto invisibile sul “Corriere”).     Ma i detenuti non hanno accettato la manovra, hanno discusso e firmato il documento “politico” che – nonostante il boicottaggio – è stato consegnato direttamente al Bucalossi ed ha riempito la terza pagina dell’“Avanti!” di oggi!
Qui dentro forme nuove di protesta vengono immediatamente recepite e trovano rispondenza; dopo Jan Palach – ad esempio – si segnalavano frequenti casi analoghi in molte carceri: ma l’autolesionismo è ormai superato per nuove forme collettive e politicizzate.

dal:  Documento dello sciopero della fame dei detenuti di San Vittore
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No! Il 18 aprile no!

Proprio questo 18 aprile 2013 dovevano iniziare le votazioni per il Presidente della Repubblica! 

Che ci presenta ancora un democristiano: Franco Marini

18apr-2

Che ricordo tenebroso quel 18 aprile 1948!

18apr-3Iniziò in quella data la corrotta e mafiosa dittatura democristiana al servizio del vaticano e del grande capitale, in parte assistito

18apr-4con i soldi pubblici,  che ha avvelenato, cementificato e devastato i nostri territori e saccheggiato la vita dei proletari e dei lavoratori.

Qui la canzone: “Vi ricordate quel 18 aprile!”  per la voce di Giovanna Daffini

https://www.youtube.com/watch?v=a3tEY158qgw

18apr-1

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Ancora buio sul “suicidio” del ragazzo Carlo Saturno, testimone scomodo

Due anni fa, il 7 aprile 2011, dopo 7 giorni di agonia, moriva Carlo Saturno di 22 anni.

Carlo1Era stato “suicidato” nel carcere di Bari, testimone e vittima dei pestaggi delle guardie nel carcere minorile di Lecce. Carlo, rompendo il muro di omertà, aveva denunciato il clima di terrore che gli agenti di custodia avevano imposto tra i ragazzi del carcere per minori (Ipm) di Lecce. Dopo la denuncia, Carlo viene trasferito al carcere di Lucera, poi a Taranto e infine a Bari, dove entra nell’ottobre 2010 per furto. Il 30 marzo 2011, sembra ci sia stata una colluttazione con gli agenti e Carlo viene portato in cella di isolamento e dopo poco viene trovato quasi morto con una corda al collo, dopo una settimana di coma muore. Nel febbraio 2012 la Procura individua “istigazione al suicidio”, ipotizzando in sostanza che sia stato costretto da persone o situazioni a farla finita.

Così la testimonianza di Carlo per il processo a carico delle guardie del carcere minorile di Lecce non potrà andare avanti e dunque…

 … e invece si sono prescritti… 

Il post del settembre 2011 sulla “misteriosa” morte in carcere del giovane Carlo Saturno, detenuto e testimone decisivo, terminava con le preoccupazioni di Susanna Marietti (dell’Associazione Antigone), con queste parole: “Che non ci dicano un domani che si sono prescritti i tempi.”

E invece: Il 19 giugno 2012 i giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce hanno dichiarato l’avvenuta prescrizione per i reati contestati – abusi su minori e violenze – a nove agenti di polizia penitenziaria, imputati per i presunti maltrattamenti avvenuti nel carcere minorile di Lecce tra il 2003 e il 2005. I reati sono prescritti.

Carlo2(la stampa locale) «È finito senza colpevoli il processo sulle presunte violenze nel carcere minorile di Lecce dove era detenuto il manduriano, Carlo Saturno, trovato morto un anno fa nel carcere di Bari… (i familiari di Carlo) La giustizia è una vergogna. Nostro fratello lo hanno rovinato ed ora è morto invano per la seconda volta»Filomena Saturno, sorella di Carlo, uno degli ex detenuti del minorile di Lecce che aveva denunciato le presunte violenze dei suoi carcerieri, non ha parole per commentare l’assoluzione per prescrizione di tutti gli imputati del processo a carico degli agenti di custodia della ex casa di correzione sulla via per Monteroni a Lecce… Di quanto sarebbe accaduto nel minorile di Lecce, suo fratello le aveva mai raccontato qualcosa? «Certo che si, eccome. Ci diceva che lo picchiavano sempre, da un occhio non vedeva più per un pugno che gli tirarono lì dentro. Ci raccontò di quando con uno schiaffo gli ruppero il timpano di un orecchio e che la mattina dopo si ritrovò con il cuscino pieno di sangue nella sua cella. Era terrorizzato dalle guardie, da quel periodo non ne è più uscito, soffriva di ansia, attacchi di panico, prendeva le gocce».

A distanza di due anni dalla morte di Carlo Saturno suicidato nelle carceri dello stato due anni fa, troppe domande rimangono senza risposta:

*qual’è la situazione nelle carceri per minori?

*perché questa società rinchiude ancora in prigione ragazze e ragazzi?

 vedi post precedente qui

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Voce ai senza voce!

È una triste rappresentazione teatrale.

Post1Sembra un consulto di medici sul letto di un moribondo. Il letto di morte è il carcere di questo squallido paese. I moribondi sono le detenute e i detenuti, intorno ai quali, nel ruolo improbabile di medici e guaritori, ci sono un po’ tutti: politici, giuristi, avvocati, giornalisti, anime belle e tutti i buonisti e le buoniste di questa terra che vogliono portare sollievo a chi soffre.

Poi i detenuti e le detenute muoiono sul serio. L’alba del 9 aprile ha contato due detenuti uccisi ancora dal carcere:    uno aveva 57 anni, si chiamava Marco ed è morto la scorsa notte, probabilmente a causa di un infarto, nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso; un carcere “modello”, un modello di morte. È il terzo detenuto che muore, nelle carceri del Lazio, dall’inizio del 2013. Un mese e mezzo fa era stato rinchiuso nella sezione G11 di Rebibbia, l’avevano condannato per una tentata rapina di 20 euro ai danni di un tabaccaio.  L’altro,  Sergio di 45 anni, era gravemente malato e per questo motivo era rinchiuso nel centro clinico del carcere genovese. Un centro clinico, denominato: “Reparto di sostegno integrato”. Bel sostegno! A tutt’oggi sono 52 le persone morte in carcere e di carcere dall’inizio del 2013.

I medici intorno al letto di morte non somigliano a Esculapio, assai più a grossolani imbroglioni e fattucchieri. Ciascuno propone la ricetta miracolosa per salvare le carceri dallo sfacelo. Tengono più alle carceri che ai carcerati e alle carcerate.

Leggiamo dalle agenzie di oggi: «Oltre 10.000 firme raccolte per tre leggi di iniziativa popolare. Con oltre 10.000 firme raccolte in meno di tre ore, è partita bene la campagna a sostegno delle tre leggi di iniziativa popolare “Tortura, carceri e droghe”.Obiettivi:  ridurre il sovraffollamento, introducendo una sorta di “numero chiuso” all’esaurirsi della capienza regolamentare – solo teoricamente fissata per legge – negli istituti di pena; modificare e alleggerire le disposizioni della criminogena legge Fini-Giovanardi sulle droghe; infine inserire nel codice penale quel reato di tortura che ancora manca».

post2L’obiettivo dichiarato è: «Per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri», per ridurre l’affollamento rafforzando il concetto di misura cautelare in carcere come extrema ratio, proponendo modifiche alla legge Cirielli sulla recidiva, e imponendo il “numero chiuso” una volta esaurita la capienza regolamentare. In aggiunta c’è la richiesta di istituire un Garante nazionale per i diritti dei detenuti, e l’altra meritoria proposta di cancellare il reato di clandestinità. Infine, le “Modifiche alla legge sulle droghe: depenalizzazione del consumo e riduzione dell’impatto”, che puntano ad archiviare la Fini-Giovanardi depenalizzando i consumi e la coltivazione casalinga, diminuendo le pene e restituendo centralità ai servizi pubblici per le dipendenze». Altri aggiungono per “ridare al carcere la sua funzione rieducatrice

A cosa dovrebbero essere “rieducati” i detenuti e le detenute, non è dato sapere. Forse al “rispetto delle leggi? Proprio quelle leggi definite “criminogene” ossia che creano il criminale, lo inventano di sana pianta. Quelle leggi che si vogliono abrogare ? Ovviamente no!, allora domandiamoci: quante altre leggi pensiamo che vadano abrogate? Ad esempio quelle che permettono di licenziare, di devastare i territori, di avvelenare l’ambiente e chi vi abita, di fare guerre e spendere la gran parte della ricchezza di una nazione in spese militari, di sfruttare e impoverire le classi ssubalterne?

Proviamo a fare una cosa invece di pensare noi che stiamo fuori a come lenire le sofferenze di chi sta dentro. Proviamo a far sì che loro dentro prendano parola collettivamente e insieme mobilitiamoci in una lotta collettiva, dentro e fuori, per cominciare a svuotare le carceri e “farla finita col giudizio degli uomini”.

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1953, l’anno della “legge truffa” (31 marzo 1953)

1953

truffa-2Sono questi gli anni in cui si intensifica l’offensiva reazionaria nel paese. I padroni e il loro ceto politico vogliono ricacciare indietro quei minimi avanzamenti delle classi popolari realizzate nel dopoguerra.

Nelle piazze la repressione colpisce con i reparti “celere”; la galera incarcera le opposizioni sociali. Nelle fabbriche si respira aria di “caccia al comunista”, spuntano i “reparti confino” dove vengono isolate le avanguardie operaie e i lavoratori più attivi. In Fiat il terrore diffuso da Valletta produce la diminuzione di iscritti alla Cgil, che nel 1955 perde la maggioranza nelle elezioni per la Commissione Interna. È il momento più difficile per il movimento operaio, nonostante i suoi dirigenti avessero dato ampia disponibilità alla ricostruzione industriale capitalistica privilegiando gli interessi padronali.

Per ribadire, anche a livello istituzionale il suo dominio, la Dc prepara la “leggeTruffa-1truffa” per mezzo della quale la Dc vuole assicurarsi governi stabili in grado di reggere alle defaillance di deputati e senatori non controllati. I cosiddetti “franchi tiratori”, che avevano messo in crisi molti governi.

La legge truffa è una legge elettorale contenente norme di riforma della legge proporzionale in senso maggioritario. Fu promulgata dal presidente di allora Luigi Einaudi il 31 marzo 1953 (n. 148/1953)

Questa legge attribuiva un forte “premio di maggioranza” per la coalizione che riuscisse vincitrice alle elezioni col 50% dei voti più uno. Il premio doveva servire alla coalizione a governare per tutta la legislatura evitando di essere messa in crisi.

Il 29 marzo al Senato, il giorno dell’approvazione, ci furono scontri fisici tra senatori della maggioranza e dell’opposizione. In tutto il paese vi furono manifestazioni scontri con la polizia e scioperi per contrastarla.

truffa-4È importante confrontare la “legge truffa” e quella attuale: il “porcellum” di gran lunga peggiore della “legge truffa”, perché nel “porcellum” scatta il premio anche se la coalizione vincente non raggiunge la maggioranza assoluta.

Il 7-8 giugno, nelle elezioni politiche in Italia: la coalizione di centro (Democrazia Cristiana, PSDI, PLI e PRI) non riesce ad ottenere la maggioranza assoluta, si ferma al 49,85%, non scatta quindi il premio di maggioranza assicurato dalla legge truffa per soli 57.000 voti. Una cocente sconfitta per l’arroganza democristiana.

Nelle elezioni del giugno 1953, gli elettori e le elettrici furono: 30.280.342; votanti: 28.410.326; voti validi: 27.092.743. Percentuale 93,8%. VOTI: Dc-10 mil.864mila; Pci-6mil.122mila; Psi-3mil.442mila; Msi-1mil.583mila; Psdi 1mil. 223mila; Pli 816mila.

Il 10 febbraio, viene approvata dal Parlamento, a larga maggioranza, la legge n. 163 che istituisce l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI).

Il 6 marzo –In Unione Sovietica gli organi di informazione annunciano la morte di Josif Stalin (Iosif Vissarionovič Džugašvili).

Il 9 marzo, a Mosca, si svolgono i funerali di Stalin.

StalinIl 7 settembre, in Unione Sovietica, in seguito alla morte di Stalin, dopo un periodo di gestione collettiva, Kruscev (Nikita Sergeevič Chruščëv) diventa segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS)

In tutto il mondo occidentale grava lo spettro della “caccia alle streghe”, il maccartismo individuava e cercava di colpire tutti coloro che non si piegavano a incensare e osannare il sistema capitalistico. Tutti questi vengono denunciati come sovversivi e “agenti dell’Urss”

Il 7 aprile  a Londra è la volta dell’attore Charlie Chaplin che viene messo sotto accusa come filocomunista. Chaplin annuncia che non farà più ritorno negli Stati Uniti. Ritornerà soltanto nel 1972, per ritirare il Premio Oscar alla carriera.

MoncadaIl 26 luglio, a Cuba: un gruppo di ribelli, guidati da Fidel Castro, assale la caserma Moncada. L’assalto, sarà un fallimento, ma come tutti i fallimenti preparò la futura guerriglia rivoluzionaria dei “barbudos” che vinse contro il dittatore Batista e costruì la “nuova Cuba socialista”.

Il 17 giugno, a Berlino Est: carri armati sovietici intervengono contro gli operai che dimostrano per respingere il peggioramento delle loro condizioni di lavoro.

Film del 1953:

Vacanze romane Regia di William Wyler. Con Gregory Peck, Eddie Albert, Audrey Hepburn,

I vitelloni Regia di Federico Fellini. Con Leopoldo Trieste, Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Franco Fabrizi, Leonora Ruffo.

Gli uomini preferiscono le bionde Regia di Howard Hawks. Con Jane Russell, Marilyn Monroe, Charles Coburn, Elliott Reid, Tommy Noonan.

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In ricordo di Prospero

invito alla presentazione-1

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Per un intervento di massa sul terreno della repressione

Le compagne e i compagni della rivista on-line “il pane e le rose” mi hanno proposto delle domande sulla repressione e come lottarci contro. Eccola:

Salvatore Ricciardi: “per un intervento di massa sul terreno della repressione”
Abbiamo inviato a Salvatore Ricciardi alcune domande, concernenti l’attuale inasprimento delle politiche repressive e la possibilità, da parte delle forze antagoniste, di farvi fronte. La scelta del nostro interlocutore non è stata dettata solo dalla sua esperienza diretta della cruda realtà carceraria e delle vessazioni che lo Stato italiano riserva in particolare a certe categorie di detenuti. Ma anche dalla sua capacità di svolgere un discorso complessivo sulla storia dei movimenti sociali italiani, dagli anni ’60 in poi, dimostrata col volume “Maelstrom”.
E’ infatti impossibile capire alcune dinamiche attuali senza riferirsi alle precedenti stagioni conflittuali ed ai termini con cui sono state contrastate dalle istituzioni. Non per rimanere prigionieri di un modello interpretativo, ma per avere una maggiore intelligenza dell’oggi attraverso le analogie (e le differenze) con quanto è accaduto ieri.
Inoltre si tratta di fuoriuscire pure da un modo inadeguato di concepire la risposta alla recrudescenza repressiva in atto. Spesso, magari facendo di necessità virtù, ci si acconcia a formare piccoli gruppi sul tema, che non riescono a saldare questo discorso con quelli riguardanti la concreta articolazione delle lotte nei territori e nei posti di lavoro.
Riteniamo che, nelle risposte di Salvatore, vi siano diversi elementi utili a reinserire, di fatto, la riflessione su carcere e repressione in un quadro e – soprattutto – in una progettualità più ampia.
A patto che la discussione – muovendo da questo e da altri interventi – “non si arresti” ma continui a svilupparsi liberamente, preferendo l’analisi agli schemi precostituiti.
*****
Nell’Italia attuale, un dato colpisce, quanto a rapporti fra istituzioni e movimenti. E cioè la sproporzione tra l’apparato repressivo dispiegato e le spinte contestative esistenti. Le quali, pur essendo cresciute rispetto al più recente passato, ancora non hanno raggiunto dimensioni considerevoli. Come interpreti tale situazione?

A sinistra siamo abituati a pensare che i sistemi repressivi degli stati democratico-borghesi, rispondano ai movimenti contestativi in maniera proporzionale. Ossia più un movimento è antagonista e di difficile controllo istituzionale, più la repressione è pronta a colpire con durezza. Con questa “credenza” valutiamo anche la repressione verso la extralegalità sociale: pensiamo che le carceri si riempiono e le condanne diventano più dure quando le attività extralegali si intensificano. Questo è ciò che ci hanno insegnato a scuola, per mezzo dei media e nelle sezioni, ormai sciolte, del vecchio partito comunista. Nella realtà non è così. La modalità repressiva proporzionale è vera soltanto in teoria. Appartiene alla cosiddetta sanzione retributiva: tanto danno fai tu alla società col tuo violare la legge, altrettanto danno ti infligge la giustizia statale in termini di privazione di libertà e sanzioni economiche e amministrative; il tutto improntato al criterio della proporzionalità tra reato e pena. Criterio che dovrebbe valere sia per “reati comuni”, sia per i conflitti, i “reati politici”. Recentemente su il Manifesto del 5 febbraio 2013, Antonio Bevere, riscontra l’abbandono del criterio proporzionale: «All’origine della sovrabbondante presenza nelle carceri italiane non vi è solo la ristrettezza dei locali, ma anche una scarsa attenzione per il principio della proporzionalità della pena…».
La teoria proporzionale è stata in voga nei regimi liberali dell’Ottocento, ma, in maniera molto relativa. Successivamente, anche a causa dei conflitti sociali, intensissimi nella seconda metà di quel secolo, si è prodotta un’altra teoria che si è affiancata a questa ed ha messo al primo posto esplicitamente la “difesa della società”, e si è attrezzata per operare in maniera “preventiva”. I giuristi definiscono questo modo di procedere “prognostico” perché, come i medici, gli apparati dello Stato, forze dell’ordine e magistrati, fanno una prognosi sullo stato del corpo sociale e sulle sue possibili infezioni. Gli agenti dell’infezione vengono analizzati con particolare attenzione se il corpo sociale “non sta bene”, se è debole, e dunque soggetto a contrarre infezioni se in contatto con agenti patogeni. A questo punto si tratta di individuare i probabili veicoli di infezione e neutralizzarli. Non ha molta importanza ciò che il “veicolo di infezione” faccia, è importante la valutazione del danno che può provocare.
Tutti gli stati, nel Novecento, hanno imparato a usare questa “filosofia” giuridica detta anche della pericolosità sociale che meglio si prestava al mantenimento dello stato di cose presenti. Perfino nei paesi a cultura giuridica anglosassone dove si andava fieri della giustizia rispettosa del “fatto” e della “persona” -ciò che conta è quello che hai fatto, non quello che sei-, oggi è rimasto un ricordo sbiadito. Basti pensare che negli Usa vi è una condanna “senza fine”: il giudice ti può condannare a una pena da “un mese all’infinito”, ossia fin quando gli operatori penitenziari decideranno che ti sei messo sulla retta via. Conosciamo la storia del compagno George Jackson (Col sangue agli occhi; Fratelli di Soledad;), del Black Panther Party, che per il furto di 70 dollari fu condannato a tempo indeterminato: “da 1 anno a vita” e in carcere fu ucciso. Inoltre hanno introdotto il meccanismo del “terzo strike”, ossia al terzo reato continuo (recidivo) la condanna diventa infinita, anche se si tratta di tre piccoli furti.
In alcuni stati, tra cui l’Italia, a questa teoria è ispirato il Codice penale Rocco redatto nel 1930 in epoca fascista e le leggi di Pubblica sicurezza (TULPS). Il Codice Rocco è ancora attuale, non perché si siano dimenticati di riscriverlo in epoca “democratica”, semplicemente perché è risultato più funzionale per una repressione efficace. D’altronde alcune leggi fatte in periodo repubblicano, come le leggi Cossiga, sono molto più dure e preventive di quelle del codice Rocco, (c’è però da aggiungere che la repressione in epoca fascista andava molto oltre lo stesso codice Rocco: il regime arrestava e ammazzava chi voleva quando voleva).
Questa premessa ci permette di interpretare le parole del capo della polizia Antonio Manganelli, quando, lo scorso anno, nell’audizione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera, il 21 febbraio 2012, disse: «Il problema è individuare una risposta da parte dello Stato… [la magistratura] ha più difficoltà nel perseguire un’organizzazione che lo è fino a un certo punto, visto che nulla vieta al singolo esponente di fare azioni individuali”. Personalmente – ha detto ancora Manganelli – ho parlato con alcuni dei procuratori più esperti in materia per cercare di capire se ci sono spazi per un’altra figura normativa, diversa dall’associazione o dalla banda armata, per perseguire un’associazione speciale, a metà tra l’organizzazione strutturata e l’organizzazione che ti rende forte in quanto appartieni ad essa ma non ti vieta, anzi, di fare qualcosa da soli».

In questo quadro, è importante delineare proprio il ruolo della magistratura. Rispetto a Genova 2001, essa è sembrata muoversi secondo la logica “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Però, se si analizzano bene le sentenze (contro i manifestanti e contro gli “eccessi” della polizia) si scopre che non è così. E che, anche in questo caso, emerge una magistratura sempre più dura nei confronti dei movimenti…

Dopo Genova le incriminazioni per “devastazione e saccheggio” fioccano, purtroppo. La magistratura italiana si è fatta le ossa sulle inchieste contro il conflitto sociale dal dopoguerra e contro la criminalità organizzata e la mafia, utilizzando criteri e ragionamenti politici, sociali ed economici piuttosto che cercare l’autore di un fatto. È stato delegato alla magistratura e agli apparati di polizia l’annientamento del movimento rivoluzionario degli ani Settanta, chiudendo la dialettica conflittuale in una logica “criminale”. Allo stesso modo è stato delegato alla magistratura anche l’azione di contrasto alla presenza di estese reti mafiose, che -al contrario- andavano combattute dalle forze politiche sul terreno economico e politico, favorendo il conflitto sociale e il radicamento di strutture proletarie autorganizzate. Tutto ciò ha allenato la magistratura ad operare sempre più con criteri politico-sociali preventivi. Gran parte della magistratura è oggi omologata a questo terreno di “difesa dell’ordine sociale”, invece che “difendere la libertà del cittadino”. Ci sono ancora piccole sacche di resistenza “garantista” nella magistratura, ma dalle recenti sentenze sembrano in netta diminuzione.
Sulla vicenda delle manifestazioni di Genova 2001 e i successivi processi e condanne, andrebbe aperta una riflessione profonda e autocritica nel movimento che, mi sembra, non ha ancora avuto luogo. Genova è stato un test per gli apparati statali. Questi hanno colpito tutto il movimento con pestaggi e torture, come deterrenza; poi hanno osservato il muoversi delle componenti del movimento e hanno registrato che non c’è stata alcuna risposta unitaria adeguata. Hanno anche osservato che tra molte componenti si è sviluppata una polemica disaggregante. Difatti l’anno successivo, la gran parte di quel movimento era a Firenze (Fortezza da Basso novembre 2002) in gran festa e sembrava dimentico dei massacri dell’anno prima. A quel punto la repressione giudiziaria ha pensato bene di operare selettivamente, isolando e colpendo una pattuglia di capri espiatori scelti tra i “cattivi”: un segnale esplicito agli altri settori del movimento di tornare dentro le istituzioni. La condanna, formale (perché poi prescritta) dei poliziotti è servita a salvare la faccia sul piano internazionale e a rimandare ancora una volta l’inserimento del reato di “tortura” nel Codice penale, perché i giudici hanno “dimostrato” che il reato di “maltrattamenti” elargisce condanne.

C’è una oscillazione, nel dibattito pubblico italiano, tra due poli. Uno puramente “repressivo”, rappresentato dalle forze più esplicitamente reazionario, l’altro di carattere legalitario, più sottile ma non meno pericoloso, rispetto al quale non sempre i movimenti sembrano avere i dovuti anticorpi…

Se cerchiamo di trarre una valutazione da ciò che sta mettendo a punto lo Stato, e che è già operante, ne dovremo dedurre che loro, gli apparati statali, si aspettano sommosse e tumulti sociali di grande intensità. Le loro previsioni vanno oltre le più rosee previsioni del più ottimista dei compagni. Tuttavia le classi dominanti non sono concordi su come affrontare una fase di crisi permanente della cui portata sono consapevoli. Questa divisione si manifesta anche su come operare la repressione. La parte che proviene dal mondo “progressista”, ma del quale ha abbandonato ogni proposito, ha un unico obiettivo: la legalità, sbandierata come fosse una religione, cui credere ciecamente. La propaganda della ex-sinistra legalitaria si avvale della denuncia dell’illegalità dei potenti, che non è certo una novità, è la natura stessa del capitalismo fin dalla sua nascita. Ma da questa propaganda nasce quella confusione che si trasmette purtroppo anche in ampi settori di movimento e che manifesta quell’assenza di anticorpi che, giustamente, sottolinei.
Non credo in scenari da fantapolitica, con poteri totalizzanti e controlli asfissianti, sicuramente assisteremo a colpi repressivi sempre più duri contro chi non accetta l’ordine della crisi, con gli apparati dello stato molto attivi che però non riusciranno ad azzerare la tensione sociale. Ma altrettanto assisteremo ad un conflitto sociale, imprevedibile, del quale non so se il movimento, o settori di esso, saprà conquistare la direzione. In questa fase di transizione, che immagino lunga, lo scenario probabile è quello che ci offrono le realtà già effervescenti, come l’Egitto, la Grecia, la Tunisia. Tensioni continue, difficoltà di governare, rottura delle fittizie unità nazionali, nuove figure che si affacciano al conflitto e rimescolamento parziale delle divisioni di classe, spostamento dello scontro dalle piazze centrali ai luoghi più prossimi ai soggetti rivoltosi. Le forze più lucide della repressione statale sanno che dovranno convivere con questi scenari e approntano gli strumenti. Uno scenario che opererà selettivamente anche nei confronti delle aree del movimento, favorendo la crescita di alcune, facendone scomparire altre.

Le campagne che le realtà di movimento stanno portando avanti contro la repressione, spesso meritorie, sono però piuttosto minoritarie, anche quando toccano temi (come, appunto, l’abolizione dei reati di devastazione e saccheggio) che in astratto dovrebbe rientrare anche nelle corde dei liberal. Come si può fare perché fuoriescano dal ghetto?

Come dicevo prima, i settori garantisti o liberal sono in via di estinzione. Casomai li troviamo negli istituti di ricerche, nelle riviste dotte e patinate, ma sempre meno tra coloro che agiscono la repressione, siano essi magistrati o forze dell’ordine.
Le campagne recentemente prodotte dal movimento non hanno sortito effetti importanti semplicemente perché, secondo me, il movimento ha scarso radicamento nei settori a noi più vicini, figuriamoci tra la cosiddetta “gente”. La “gente” segue la televisione, e gli altri media. Se analizziamo le campagne riuscite, come quella sulla “strage di Stato” e sull’arresto di Valpreda che introdusse limiti alle misure cautelari anche nei casi di reati gravissimi (legge n. 773 del 15 dicembre 1972), beh, quella campagna si vinse, perché il radicamento del movimento era di gran lunga maggiore di oggi, perché parte della sinistra era ancora garantista e perché settori della borghesia guardavano ancora con simpatia al movimento studentesco. Insomma era una fase abissalmente diversa da oggi.
Più che “campagne” rivolte all’opinione pubblica, penso sia utile oggi un intervento di massa sul terreno della repressione. Poiché la repressione colpisce sempre più settori proletari in conflitto, come in Val di Susa, è possibile dunque produrre iniziative di massa che poi investano, dal basso, tutta la società.

A parte il vissuto di chi milita, in Italia il carcere è sempre più una tremenda discarica sociale, dove vengono radunati – in condizioni spaventose- diversi soggetti indesiderabili. Ciò, in un quadro in cui si fanno grossi passi indietro in merito alle pene alternative al carcere stesso. Secondo te, cosa si può fare per unificare i due percorsi: quello contro la repressione che colpisce le avanguardie e quello che si occupa della repressione più diffusa e del carcere in generale?

Sempre più compagni e compagne varcano i cancelli di quelle maledette galere. È un fatto. Dunque dobbiamo attrezzarci. Come? Intanto parlando di carcere. Discutendone a fondo, cercando di conoscerlo. Di carcere se ne parla, ma se ne parla male. O si rincorre l’utopia del “distruggiamo le galere” oppure si rincorre il “lamento”. Ci si lamenta del sovraffollamento e dei suicidi, si inseguono i radicali che dicono “bisogna riportare il carcere alla sua funzione originaria, alla rieducazione”, “bisogna riportare la legalità nel carcere”. Sono entrambe allucinazioni! Che vuol dire “distruggere il carcere” quando la grandissima parte (per non dire tutti) dei detenuti conferma, col suo comportamento passivo, l’esistenza della galera e della punizione e al massimo chiede che sia più dolce la punizione, ma che sia una punizione. E che vuol dire “legalità” in carcere? Che vuol dire “rieducazione?”. Chi deve rieducare? E a cosa dovremmo essere rieducati? A rispettare il regime della proprietà e dello sfruttamento?, delle guerre e della devastazione ambientale?; educati a rispettare che oltre un miliardo di persone siano alla fame e centinaia di migliaia di bambini muoiano ogni giorno per denutrizione?
Discutere di carcere, secondo me, è discutere su ciò che può fare un compagno o una compagna, un attivista, che va in carcere in rapporto con quelle e quelli che rimangono fuori. Come confrontarsi con i segmenti della popolazione detenuta, come sviluppare percorsi di organizzazione nelle galere, come riappropriarsi della capacità di lottare in quelle condizioni. Considerando che in questo campo abbiamo in questo paese un’esperienza tra le più significative e massicce della storia del carcere nel mondo, simile per certi versi soltanto a quella delle Black Panters negli Stati Uniti.
Dobbiamo parlare del carcere e parlarne come un luogo familiare, non come luogo sconosciuto e terrorizzante, un luogo in cui si può lottare e ci si può organizzare per non soccombere; si possono migliorare le proprie condizioni, si possono organizzare evasioni e rivolte e si può avvicinare la sua abolizione. Ma facendo un passo alla volta e in maniera organizzata e coinvolgente. A chi finisce in carcere dobbiamo dare sostegno massimo e strumenti per utilizzare al meglio la volontà di lotta e di ribellione di fronte al sistema carcerario. Dobbiamo fare uno sforzo maggiore per iniziative sul territorio in grado si criticare il carcere e convincere la popolazione proletaria che si può e si deve lottare contro il carcere in ogni territorio; perché poi in carcere i giovani proletari ci finiscono e molto frequentemente. Allo stesso modo va ricostruita una lotta di massa contro i Cie.

19 marzo 2013 –  A cura de Il Pane e le rose – Collettivo redazionale di Roma
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Ciao Nicola! E’ morto il compagno Nicola Pellecchia

Nicola-1Qualche ora fa è morto il compagno Nicola Pellecchia

Che la terra ti sia lieve!

Ciao Nicola! Un posto importante nei nostri ricordi

Militante dei Nuclei Armati Proletari.

Arrestato il 13 luglio 1975 a Roma.  Il 16 febbraio Nicola-31977, condannato dalla Corte d’Assise di Napoli a 21 anni e 5 mesi di carcere. Sempre a testa alta nelle durissime condizioni delle carceri speciali, Nicola uscito dal carcere si è dedicato ad organizzare i pescatori di Procida contro lo strapotere dei grossi mercanti.

Un tumore al pancreas l’ha portato via

Nicola-2
Cosa sono stati i Nap e cosa hanno rappresentato nel percorso di riscatto del proletariato extralegale

Nei precedenti Post:

i Nap parlano della loro nascita e degli scopi che si propongono:  leggi  qui  e  qui   e   qui

 

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