NOTIZIE E SENTENZE SUL CARCERE

… quelle che interessano le persone detenute … o in procinto di … esserlo

2020

Le madri di figli gravemente disabili possono scontare la pena in detenzione domiciliare, qualunque siano l’età del figlio e la durata della pena, sempre che il giudice non riscontri in concreto un pericolo per la sicurezza pubblica.

Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 18, depositata 15.02.2020 accogliendo le censure della Corte di cassazione dove non prevede che la detenzione domiciliare “speciale” sia concessa anche alle madri di figli con più di dieci anni, se affetti da grave disabilità.

Nel solco di quanto già affermato nel 2003 sulla detenzione domiciliare “ordinaria” (sentenza n. 350), la Corte ha rimosso anche per la detenzione speciale il limite di età dei dieci anni del figlio affetto da grave disabilità.

 

2019

La coltivazione della marijuana per uso personale è depenalizzata

Nell’udienza del 19 dicembre la Corte di Cassazione a Sezione unite penali è approdata alla conclusione che la coltivazione di marijuana e, in generale, di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti, è depenalizzata se indirizzata al solo consumo personale.  Ha precisato che il reato di coltivazione di stupefacente è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, “essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente“.

Le Sezioni unite scrivono nella comunicazione provvisoria n. 27 del 2019, in attesa delle motivazioni definitive, che devono essere considerate escluse dall’area del penalmente rilevante “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore“.

2019 Sentenza n. 99, 2019  – Corte Costituzionale

Se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. In particolare, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.

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Se la pena è sostituita con lavoro di pubblica utilità, la patente non viene sospesa

Cassazione -Sezione IV penale – Sentenza 31 maggio 2019 n. 24385. In caso di sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’articolo 186, comma 9-bis, del codice della strada, il giudice deve sospendere l’efficacia della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.

 

Anche il pregiudicato può entrare in Italia

Sezioni unite civili della Cassazione, sentenza n. 15750 – 12 giugno 2019

Anche lo straniero pregiudicato può avere diritto al permesso di soggiorno per accudire il figlio minore in Italia. Il principio di diritto messo a punto dalla pronuncia stabilisce che, per quanto riguarda l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di un minore straniero già presente sul territorio nazionale, una decisione negativa non può essere diretta conseguenza di una precedente condanna. Neppure se questa è stata inflitta per uno dei reati che il Testo unico dell’immigrazione considera impedimento all’ingresso o soggiorno dello straniero.

Semmai, la condanna “è destinata a rilevare, al pari delle attività incompatibili con la permanenza in Italia, in quanto suscettibile di costituire una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale, e può condurre al rigetto dell’istanza di autorizzazione all’esito di un esame circostanziato del caso e di un bilanciamento con l’interesse del minore“. La sentenza invita il giudice che sarà chiamato a decidere sulla domanda di ingresso per un periodo determinato ad accertare in prima battuta l’esistenza di gravi motivi collegati con lo sviluppo psicofisico del minore.

Esaurito questo accertamento in maniera positiva, davanti al fatto che il familiare che ha presentato la richiesta emerge anche come colpevole di attività incompatibili con la presenza in Italia, l’autorità giudiziaria potrà negare l’autorizzazione solo dopo una valutazione complessiva svolta in concreto e non in astratto sul bilanciamento tra i i diversi interessi. Quello del minore a potere godere dell’assistenza del familiare e quello dello Stato alla protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza. [da: il Sole 24 Ore del 13 giugno 2019 di Giovanni Negri]

 

Gratuito patrocinio: al detenuto extra Ue basta l’autocertificazione

Cassazione penale, sez. IV, sentenza n° 12418 del 20/03/2019. In tema di ammissione al gratuito patrocinio, l’art. 79 del D.P.R. 115/2002 stabilisce (comma 2) che per i redditi prodotti all’estero, “il cittadino di Stati non appartenenti all’Unione Europea correda l’istanza con una certificazione dell’autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato”. In caso di richiesta di ammissione da parte di detenuto extracomunitario, la certificazione consolare può essere sostituita da una autocertificazione? A questo interrogativo la Corte di Cassazione, Sezione Quarta penale, ha risposto affermativamente con la sentenza 20 marzo 2019, n. 12418.

 

Corte Costituzionale Sentenza N. 40/ 2019

È sproporzionata la pena minima di otto anni prevista per i reati non lievi in materia di stupefacenti. Lo ha stabilito la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 40 ha dichiarato illegittimo l’articolo 73, primo comma, del Testo unico sugli stupefacenti (d.P.R. n. 309 del 1990) là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei. Rimane inalterata la misura massima della pena, fissata dal legislatore in venti anni di reclusione, applicabile ai fatti più gravi.
In particolare, la Corte ha rilevato che la differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituisce un’anomalia sanzionatoria in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione).
La rimodulazione da otto a sei anni del minimo edittale per i fatti non lievi è stata ricavata dalla normativa in materia di stupefacenti. Questa misura, infatti, è stata ripetutamente considerata adeguata dal legislatore per i fatti “di confine”, posti al margine delle due categorie di reati.
La dichiarazione di incostituzionalità arriva dopo che la Corte, con la sentenza n. 179 del 2017 aveva invitato in modo pressante il legislatore a risanare la frattura che separa le pene per i fatti lievi e per i fatti non lievi, previste, rispettivamente, dai commi 5 e 1 dell’articolo 73 del d.P.R. 309 del 1990. Quell’invito è rimasto però inascoltato sicché la Corte ha ritenuto ormai indifferibile il proprio intervento per correggere l’irragionevole sproporzione, più volte segnalata dai giudici di merito e di legittimità.

2018

Ammissione al patrocinio gratuito

Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 dicembre 2018 n. 54830. In tema di patrocinio a spese dello Stato, il provvedimento di rigetto dell’istanza di ammissione fondato sulla mera affermazione che l’autocertificazione di assenza di reddito è di per sé un potenziale inganno è illegittimo, in quanto le disposizioni di cui agli artt. 79, comma 3 e 96, comma 2, d.P.R. n. 115/2002, che assicurano poteri di accertamento sia al giudice dell’ammissione che a quello dell’opposizione, implicano una presunzione di impossidenza vincibile con l’esercizio di tali poteri.

 

Possibili interventi terapeutici anche per detenuti in 41bis

La Cassazione penale, sezione I, sentenza 21 novembre 2018, n. 52526, ha accolto il ricorso di un detenuto, in regime di 41bis, contro l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva confermato quella del magistrato di sorveglianza di primo grado, dichiarando inammissibile il reclamo contro il rigetto della domanda di praticare interventi fisioterapici. L’omissione delle necessarie terapie sanitarie può e deve essere oggetto di valutazione ai fini previsti dal legislatore, potendo configurarsi trattamento inumano o degradante, non potendosi ritenere violato l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

 

I detenuti in regime di 41bis possono vedere la televisione anche di notte

Il Tribunale di sorveglianza, con sentenza 2 ottobre 2018 (ud. 27 settembre 2018), n. 4164, ha accolto il reclamo proposto da un detenuto, disponendo disapplicarsi la circolare Dap n. 3676/6126 del 2.10.2017, nella parte in cui vieta la fruizione del televisore dalle ore 24.00 alle ore 7.00. “Sproporzionata, incongrua ed ingiustificata la disposizione che limita temporalmente al detenuto in regime di “carcere duro” di accendere la televisione in cella oltre le ore 24,00″.

 

Tre sentenza in merito al comportamento del lavoratore/lavoratrice estranei all’ambito contrattuale

“…i fatti ed i comportamenti del lavoratore estranei all’ambito contrattuale, non verificatisi nel corso e nel luogo dell’attività lavorativa, sono, in linea generale, irrilevanti ai fini della valutazione degli addebiti quando non abbiano alcuna incidenza sulla sfera contrattuale. Quando, invece, tali comportamenti siano collegati, sia pure indirettamente, con l’esecuzione della prestazione lavorativa, oppure assumano un rilievo talmente grave da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto di lavoro, non v’è dubbio che essi valgono a determinare un’irreparabile compromissione dell’elemento fiduciario, che costituisce la base del rapporto di lavoro subordinato, specialmente quando tale rapporto, per le sue caratteristiche e peculiarità, richiede una collaborazione qualitativamente elevata e una fiducia correlativamente molto lata, che può estendersi anche alla serietà dei comportamenti privati del lavoratore” [Cass. 23 luglio 1985, n. 4336;  Cass. 3 aprile 1990, n. 2683, ].

“…i comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa possono incidere radicalmente sul vincolo fiduciario per la loro gravità  e risonanza nonché in considerazione delle mansioni espletate dal dipendente e della particolare natura dell’azienda datrice di lavoro, ma non possono rilevare ai fini della dedotta giusta causa di licenziamento, allorché non abbiano prodotto effetti riflessi nell’ambiente di lavoro e tanto meno nociuto al prestigio dell’Ente datore di lavoro”.    [Cass. 3 ottobre 2000, n. 13144]

La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto di concedere benefici ad alcune categorie di detenuti ergastolani

... dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato; ecc.

Leggi tutta la sentenza   qui Sentenza Cosulta n. 149

Asilo politico alla vittima di violenza domestica in patria

Tribunale di Roma – Sezione diritti della persona e immigrazione – Ordinanza 11 maggio 2018. Riconosciuto il diritto di asilo e una donna senegalese che in patria era stata oggetto di violenza domestica. Una cittadina senegalese, originaria di Dakar, aveva lasciato il Senegal per fuggire dall’uomo con cui era stata costretta a sposarsi e dal quale aveva subito ripetute violenze sessuali e psicologiche. La donna, orfana di genitori, aveva tentato di sottrarsi al matrimonio forzato con un uomo molto più grande di lei e che aveva già due mogli, rivolgendosi alla polizia. Ma era stata invitata a rispettare le tradizioni.

Il magistrato rileva che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 7 del Dlgs 251/2007, gli atti di persecuzione possono assumere la forma, tra l’altro, di “atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale”, o di “atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia”.

Inoltre la giudice cita gli articoli 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (resa esecutiva in Italia con la legge 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, che attestano che anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

Secondo le linee dell’Unhcr del 7 maggio 2002 sulla persecuzione basata sul genere, si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5 c.p.p.,

nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospenda l’esecuzione della pena, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché quattro. La sentenza n. 41, depositata il 2 marzo 2018, rappresenta una pronuncia molto attesa e fortemente auspicata da parte della dottrina e della più attenta giurisprudenza, laddove è intervenuta a “sanare” il palese difetto di coordinamento sussistente tra la disciplina dell’affidamento in prova c.d. “allargato”, ai sensi dell’art. 47, comma 3-bis O.P. (introdotto con il d.l. n. 146/2013) e l’invariato comma 5 dell’art. 656 c.p.p.

Targa dell’auto occultata con nastro adesivo: niente carcere, solo una multa

Corte di cassazione – Sezione VI penale – Sentenza 27 febbraio 2018 n. 9013.                        La targa dell’auto occultata con nastro adesivo non integra il reato previsto dall’articolo 490 Cp (soppressione, distruzione e occultamento di atti veri). Non si rischia, quindi, il carcere, al più una multa. La sentenza della Cassazione afferma che per quanto la condotta sia censurabile si deve considerare la particolare tenuità del fatto.

Lo sciopero della fame viene sanzionato come fosse una “sommossa”

Confermata dalla Cassazione la sanzione disciplinare nei confronti di due detenuti di un carcere calabrese che, insieme ad altri compagni, avevano iniziato lo sciopero della fame

La protesta pacifica dei detenuti era iniziata per protestare contro la cattiva qualità del vitto e per chiedere il rispetto dei diritti “basilari di una vita carceraria dignitosa”. Per tutta risposta la direzione aveva punito due detenuti, ritenuti i capi della protesta, con nove giorni di “carcere duro”. Contro la conferma del provvedimento convalidato dal Tribunale di sorveglianza di Catanzaro nel 2015, due dei detenuti “ribelli” hanno reclamato in Cassazione sostenendo che il rifiuto del cibo non è una “sommossa” e che “la pesante risposta sanzionatoria non era giustificata da una reale pericolosità”

Con sentenza 5315 e 5316 della Prima sezione penale, la Cassazione conferma la sanzione disciplinare e afferma che la decisione della Sorveglianza “non merita censura”.

2017

Ripristino della pensione Inps a detenuti e condannati per reati “ostativi”

Il giudice del lavoro di Teramo, Daniela Matalucci, ha disposto il ripristino dell’erogazione della pensione che l’Inps, in base alla legge Fornero, aveva revocato a migliaia di detenuti e condannati (15mila secondo dati Inps) per reati “ostativi”.

Il ricorso è stato fatto chiedendo l’annullamento del provvedimento di revoca della pensione di invalidità civile disposta dall’Istituto previdenziale nei confronti di L.S., condannato per gravi reati ostativi (tra cui quello previsto dall’art. 416 bis del Codice penale, cioè associazione di tipo mafioso), attualmente sottoposto a sospensione della pena per gravi motivi di salute. La sentenza è stata emessa e pubblicata nel mese di ottobre 2017.

La revoca della pensione era stata disposta in base all’art. 2, commi 58/63 L. n. 92/2012 (legge Fornero), la quale prevede detta sanzione a carico di soggetti condannati per alcuni dei reati cosiddetti ostativi (quelli più gravi, ritenuti di maggior allarme sociale) fino al termine del periodo di esecuzione della pena inflitta.

Con questa sentenza il giudice del lavoro di Teramo ha giustamente annullato il provvedimento di revoca emesso dall’Inps, con conseguente ordine di ripristino della prestazione assistenziale a favore del ricorrente, condannando l’ente previdenziale al versamento degli arretrati dovuti dalla revoca in poi.

Questo provvedimento giudiziario  contrasta con le disposizione del Ministero della Giustizia che ha revocato le prestazioni assistenziali a partire dal mese di maggio del 2017, nonostante la norma sia in vigore dal 2012. Queste revoche sono in violazione dell’art. 38 della Costituzione., che prevede che ogni cittadino inabile al lavoro, per vivere ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale. Inoltre la  revoca delle prestazioni assistenziali costituiscono una sanziona amministrativa accessoria alla condanna penale e non possono quindi avere applicazione retroattiva (art 25 Costituzione).

Il governo mette le mani in tasca ai condannati, su multe e ammende

La nuova legge di Bilancio del 2018 approvata dal  Consiglio dei Ministri lunedì 16 ottobre 2017,  contiene un bel regalo alle persone condannate. Coloro che sono stati condannati in giudizio al pagamento di multe e ammende e non hanno saldato il conto dovranno subire un periodo di libertà controllata, fino a un anno, oppure potranno chiedere di svolgere un lavoro sostitutivo, per un periodo corrispondente alla sanzione.

La procedura prevista contempla un flusso mensile di informazioni al pubblico ministero sull’andamento delle riscossioni delle pene pecuniarie; da qui l’ufficio del pm riporta le notizie sulle morosità al magistrato di sorveglianza per l’attivazione della conversione, previe le indagini del caso sulla solvibilità del condannato

La persona detenuta ha diritto alle stesse cure sanitarie di una persona libera

La Corte di Cassazione, Sezione IV, con sentenza  n° 25576/2017, si è espressa sull’obbligo di sottoporre a costante controllo sanitario il soggetto detenuto garantendo la propria tutela alla salute. La Corte ricorda che l’art. 39 co. 2, della Legge n° 354 del 26 luglio 1975, Legge sull’Ordinamento Penitenziario, sancisce espressamente due regole cautelari: 1) obbligo per il sanitario di una certificazione, attestante il regime di compatibilità del detenuto con il sistema carcerario, 2) obbligo per il medico di sottoporre a costante controllo sanitario il detenuto, nel corso del periodo di espiazione della pena, anche se manca una espressa richiesta del detenuto.

Inoltre la Cassazione ricorda che il diritto alla salute della persona in carcere risulta garantito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla Convenzione Edu. Vi sono anche le Regole penitenziarie Europee nonché la deliberazione approvata dall’Onu nel dicembre del 1982, relativa ai “principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti”. In particolare, le Regole penitenziarie Europee impongono ai medici di operare nei confronti della persona detenuta il medesimo trattamento che sarebbe adottato nei riguardi di un soggetto libero.

I detenuti in 41bis possono acquistare libri in lingua straniera

I giudici della prima sezione della Corte di Cassazione, il 24 maggio scorso, hanno esaminato il reclamo proposto dal detenuto Alessio Attanasio, 47 anni, attualmente detenuto nella Casa Circondariale di Sassari, avverso l’ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Novara il 29 maggio 2014. Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione aveva chiesto di dichiarare inammissibile il reclamo di Attanasio.

La Suprema Corte ha dichiarato fondato il reclamo e ha annullato l’ordinanza impugnata dall’Attanasio, con rinvio ad altro Magistrato di Sorveglianza di Novara affinché si pronunci sulla richiesta del detenuto tesa ad ottenere un’ordinanza con la quale venga ordinato alla Direzione della Casa Circondariale di commissionare i libri in lingua straniera che poi verranno pagati dall’Attanasio. L’acquisto dei libri in lingua straniera, come sollecitato da Alessio Attanasio, deve essere consentito anche agli altri detenuti sottoposti al regime del 41 bis Ordinamento Penitenziario, ristretti in tutti gli istituti di pena, ai quali è stato negato il diritto di ricevere libri in lingua straniera.

Non è reato vivere in strada. Cassazione assolve un senza casa

Palermo, il sindaco aveva multato di 1.000 € nel 2010, un uomo senza fissa dimora, in base a un’ordinanza comunale che faceva riferimento all’Art. 650 del codice penale che impone il “divieto di bivaccare” e di “alterare il decoro urbano”. La Cassazione ha assolto l’uomo perché non è reato vivere in strada se si versa in stato di necessità. (Cassazione, Prima sezione penale: sentenza n. 37787)

Corte di cassazione – Sentenza 36616/2017. La non punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere esclusa per lo spacciatore di sostanze stupefacenti, solo sulla base di precedenti denunce per reati della stessa specie, in assenza di condanne (*).  La Corte di cassazione, con la sentenza 36616, accoglie la tesi del ricorrente che riteneva di aver diritto all’applicazione dell’articolo 131-bis del Codice penale sulla particolare tenuità del fatto, mentre il giudice di merito si era limitato a dichiarare, in astratto, che l’istituto non era incompatibile con la fattispecie concreta. Il ricorrente era stato  condannato a due mesi di reclusione e a 600 euro di multa per il reato previsto dall’ articolo 73, comma 5 del Dpr 309/90 (vedi). Una norma sulla lieve entità, che scatta anche in caso di cessione, modificata dall’articolo 2 del Dl 146/2013 (il cosiddetto svuota carceri) da configurare non più come un’attenuante a effetto speciale ma come figura di reato autonoma rispetto a quella delineata dal comma primo dell’articolo 73 del Dpr.

(*)- La non punibilità è preclusa in caso di comportamento abituale, quando si agisce per motivi futili o abietti, o con crudeltà, quando si approfitta della minorata difesa della vittima o quando le conseguenze dell’azione sono lesioni gravissime o la morte. Né se l’autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Nessuna aggravante della “destrezza” se la vttima è distratta

Se chi commetta furto approfittando di una temporanea distrazione della vittima, senza aver fatto nulla per determinarla, non subisce l’aggravante della “destrezza“. Depositate le motivazioni della sentenza 34090/2017, con cui le Sezioni unite hanno ristretto il perimetro dell’aggravante ai casi in cui si tiene, “prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui”, un comportamento “caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza”, idoneo “a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene”. Nessun aggravio se il ladro “si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore”.

Non c’è aggravante, quindi niente arresto, se lo spaccio di sostanze avviene nei pressi dell’università.

Corte di cassazione – Sezione VI penale – Sentenza 1° giugno 2017 n. 27458. Lo spaccio nelle vicinanze dell’università non integra la circostanza aggravante che legittima l’arresto e la detenzione in carcere. Al più resta l’obbligo di firma. Questo in estrema sintesi l’importante principio contenuto nella sentenza della Cassazione n. 27458/2017.

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Strumenti di controllo nei posti di lavoro, senza accordo, sono vietati

Corte di cassazione – Sezione III penale – Sentenza 8 maggio 2017 n. 22149. In tema di divieto di uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, sussiste continuità di tipo di illecito tra la previgente fattispecie, prevista dagli articoli 4 e 38, comma 1, della legge 20 maggio 1970 n. 300 (cosiddetto Statuto dei lavoratori) e 114 e 171 del decreto legislativo n. 196 del 2003, e quella attuale rimodulata dall’articolo 23 del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 151 (attuativo di una delle deleghe contenute nel c.d. Jobs Act), avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria per la quale la violazione dell’articolo 4 citato è penalmente sanzionata ai sensi dell’articolo 38 citato.

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Anche il sindacato parte civile per reati di omicidio o lesioni colpose

Corte di cassazione – Sezione IV penale – Sentenza 20 aprile 2017 n. 19026. È ammissibile, indipendentemente dall’iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l’inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell’azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali.

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E’ evasione non rispondere al citofono per chi sta ai “domiciliari”

Corte d’appello di Cagliari, sentenza 1° febbraio 2017, n. 72. Commette il reato di evasione il soggetto sottoposto agli arresti domiciliari che non risponde al citofono in occasione di un controllo notturno da parte delle Forze dell’ordine. La mancata risposta al citofono per un rilevante lasso temporale, infatti, è indice dell’allontanamento senza autorizzazione dal luogo di esecuzione della misura restrittiva. Nel caso di specie, l’imputato non ha risposto a chiamate ripetute nell’arco di dieci minuti

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Chi sosta dell’auto su un parcheggio per disabili può incorrere nel reato di “violenza privata”

La Corte di Cassazione – Sezione V –  con la sentenza n. 17794 del 7 aprile 2017 ha stabilito che lasciare l’auto in sosta su un parcheggio riservato ai disabili oltre che essere un gesto incivile e imperdonabile costituisce violazione di cui all’articolo 610 del codice penaledelitto di violenza privata“.

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Fare stalking alla moglie in due periodi separati, fa scattare la recidiva

Corte di cassazione – Sezione V – Sentenza 14 aprile 2017 n. 18629. Non può “contare” sul riconoscimento di un unico reato il marito che fa stalking nei confronti della moglie in due tranche: prima della riconciliazione con convivenza e dopo una nuova rottura del rapporto: la ripresa per gli atti persecutori fa scattare la recidiva. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 18629del 14 aprile scorso.

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Impossibile la sospensione di un sindaco dalle sue funzioni

Con la Sentenza 10940/2017 la Corte di cassazione ha stabilito che la sospensione dalla funzione di sindaco non è possibile. Neppure dopo la legge Severino e la ancora più recente riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. Il Codice penale parla chiaro e vieta l’applicazione della misura per tutti gli “uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”.

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 Sorveglianza a prova di prevedibilità

di Marina Castellaneta   Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017

Corte europea dei diritti dell’Uomo – Grande Sezione – Sentenza 23 febbraio 2017 – Ricorso n. 43395/09. Le misure di prevenzione possono essere applicate, ma a patto che la legge fissi in modo chiaro le condizioni, per garantirne la prevedibilità e per limitare un’eccessiva discrezionalità nell’attuazione. Lo ha stabilito la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza di parziale condanna all’Italia pronunciata ieri (ricorso n. 43395/09). A rivolgersi a Strasburgo, un cittadino italiano colpito per due anni da una misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e obbligo di soggiorno secondo la legge n. 1423/1956, poi modificata dal Dlgs n. 159/2011.
Prima di tutto, la Grande Camera, il massimo organo giurisdizionale della Cedu, ha stabilito che la misura di prevenzione della sorveglianza speciale imposta al ricorrente non era equiparabile a una privazione della libertà personale, con la conseguenza che non è stato violato l’articolo 5 della Convenzione europea sul diritto alla libertà personale. Detto questo, però, Strasburgo ritiene che l’applicazione di misure che comportano l’obbligo o il divieto di soggiorno deve essere valutata in relazione all’articolo 2 del Protocollo n. 4 sulla libertà di circolazione. È vero – scrive la Grande Camera – che le misure avevano un fondamento nella legge, ma la loro applicazione era legata a un apprezzamento in prospettiva dei tribunali nazionali tanto più che la stessa Corte costituzionale non ha identificato con certezza la nozione di “elementi di fatto” o i comportamenti specifici da classificare come indice di pericolosità sociale. Così, non è stato rispettato il requisito della prevedibilità sia con riferimento ai destinatari delle misure di prevenzione, sia per le condizioni richieste. Quello che non convince la Corte è l’applicazione di misure preventive senza che gli individui possano sapere con chiarezza quali comportamenti, ritenuti pericolosi per società, possono far scattare l’applicazione dei provvedimenti. Di conseguenza, poiché la legge in vigore all’epoca della vicenda non aveva indicato con precisione le condizioni di applicazione e, tenendo conto dell’ampio margine di discrezionalità concesso alle autorità nazionali competenti, l’Italia ha violato la Convenzione, con un’evidente ingerenza nel diritto alla libertà di circolazione. Tanto più che al ricorrente non era stato imputato un comportamento o un’attività criminale specifica perché il tribunale competente aveva soltanto richiamato il fatto che aveva frequentazioni assidue con criminali importanti. La decisione, così, è stata fondata sul postulato di una tendenza a delinquere. Di qui la conclusione che la legge in vigore all’epoca dei fatti non offriva una garanzia adeguata contro ingerenze arbitrarie. La Corte, invece, ha respinto il ricorso per violazione delle regole sull’equo processo e sull’assenza di rimedi giurisdizionali effettivi.

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Reato di evasione per chi si allontana dai domiciliari per andare in ospadale

Corte d’Appello di Roma – Sezione 3 – Sentenza del 7 novembre 2016 n. 9221. Scatta il reato di evasione per chi si allontani dalla abitazione in cui si trova costretto agli arresti domiciliari per andare in ospedale per una “banalissima visita specialistica di controllo”. Lo stabilito la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 7 novembre 2016 n. 9221, respingendo il ricorso di una donna con numerosi precedenti penali, anche specifici, che aveva impugnato la decisione invocando lo stato di necessità a causa di un malore.

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Il magistrato di sorveglianza non può adottare un provvedimento disciplinare senza instaurare un contraddittorio

Corte di Cassazione. Prima Sezione Penale. Sentenza 3801 del 6 dicembre 2016. Deposito n. 7327 del 15 febbraio 2017. Il magistrato di sorveglianza non può adottare “de plano” un provvedimento disciplinare nei confronti del detenuto (5 giorni di esclusione dell’attività comune, per il rifiuto a sottoporsi ad una perquisizione corporale) senza instaurare un contraddittorio e discussione in udienza camerale

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Il risarcimento spetta al detenuto/a anche se scarcerato/a

Corte di CassazioneSentenza 5515/2017. Anche chi è stato già scarcerato può ottenere il risarcimento del danno per il trattamento disumano cui è stato sottoposto in carcere. Diverso era stato il parere del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva rigettato il ricorso di un detenuto, perché nel frattempo era subentrata la scarcerazione.
Ma la Cassazione invece afferma: “Compete al magistrato di sorveglianza disporre, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata a un giorno per ogni dieci durante il quale il detenuto ha subito pregiudizio, oppure attraverso la liquidazione in denaro di 8 euro giornaliere“. Come stabilito dal Decreto Legge 92/2014 (convertito nella legge 117/2014), che disciplina i rimedi risarcitori in favore dei detenuti che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In particolare, come già rimarcato dalla Corte Costituzionale nel 2016 (con la sentenza 204), le sollecitazioni rivolte allo stato italiano nella pronuncia della Corte di Strasburgo hanno riguardato l’introduzione di procedure accessibili ed effettive: idonee, cioè, a produrre rapidamente la cessazione della violazione, anche nel caso in cui la situazione lesiva fosse già cessata e ad assicurare con rapidità e concretezza forme di riparazione adeguata.

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La mania di Facebook lo porta in carcere

La Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 46874/2016 ha rigettato l’impugnazione del detenuto contro l’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva confermato l’aggravamento della misura custodiale, da domiciliare a inframuraria (in carcere), in seguito a violazioni delle misura domiciliare ritenute gravi: i giudici di merito hanno valutato, infatti, un messaggio inviato su Facebook dall’uomo alla vittima della condotta illecita, dai connotati intimidatori.

Infatti, la prescrizione di non comunicare con persone estranee deve essere inteso nel senso di un divieto non solo di parlare con persone non conviventi, ma anche di stabilire contatti con altri soggetti, sia vocali che a mezzo congegni elettronici.

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2016

Askanews, 3 settembre 2016

Il ministro Orlando convoca gli “Stati generali della lotta alla criminalità organizzata”

“Non ci rassegniamo a una cultura omertosa ancora presente”. “Abbiamo deciso di convocare un percorso di discussione e riflessione nel quale chiameremo persone di mondi diversi a confrontarsi sul tema di cosa è oggi la mafia e come la si può contrastare: abbiamo definito questo percorso gli “Stati generali della lotta alla criminalità organizzata”.

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Dire, 5 settembre 2016

Martedì 6 settembre alle 16, presso la sala Livatino in via Arenula, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, la Garante per l’Infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la Presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre onlus Lia Sacerdote sigleranno il rinnovo del protocollo d’intesa “Carta dei figli di genitori detenuti”. Parteciperanno, per il dicastero della Giustizia, il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo e il capo del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Francesco Cascini.

(per leggere la “Carta dei figli di genitori detenuti”:

http://www.bambinisenzasbarre.org/carta-dei-diritti/

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La Provincia di Biella, 3 settembre 2016

Biella: l’ex detenuto “avevo un tumore e in carcere non mi hanno curato”. Ora è morto.

“Mi chiamo Ioan Gal, sono in fin di vita e vorrei raccontare la mia storia”. Più che una storia sembra un incubo quello vissuto dall’uomo di 51 anni che ci chiede di incontrarlo mentre si trova ricoverato all’Hospice “L’Orsa Maggiore” di Biella. Vuole raccontare la sua versione dei fatti.

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cagliaripad.it, 8 settembre 2016

E’ morta Stefanina Malu la reclusa, di 83 anni, più anziana d’Italia. Aveva lasciato di recente il carcere di Cagliari-Uta a causa delle sue gravi condizioni. E una settimana fa era tornata a casa in stato di detenzione domiciliare dopo un ricovero ospedaliero. Il decesso è avvenuto nel nosocomio San Giovanni di Dio a Cagliari dove è stata portata con un’ambulanza in seguito a un malore verificatosi nella sua dimora. “Si chiude così la vicenda di ‘nonna galera’ che negli ultimi mesi aveva suscitato vivaci reazioni nell’opinione pubblica, ha sottolineato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha appreso dalla figlia Angela la notizia….

Domandiamoci: perché in questo paese c’è un diritto che costringe una donna di 83 anni in carcere? Forse dovremo liberarci di questo diritto, non invocarlo continuamente!

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Carceri e sistema penitenziario. Permessi – Permesso di necessità – Concessione – Presupposto – Solo in caso di evento unico – Esclusione – Concessione anche nell’ipotesi di vicenda familiare particolarmente grave – Ammissibilità – Condanna per omicidio del richiedente – Irrilevanza.

Il permesso di necessità va concesso al detenuto non solo in ipotesi di evento unico, ma anche nel caso di vicenda familiare particolarmente grave e non usuale, idonea a incidere profondamente nella vicenda umana del detenuto e nel grado di umanità della stessa sanzione detentiva. Ne consegue che rientra in questa nozione anche la grave malattia che affligge la moglie di un detenuto anche se questo è stato condannato per omicidio.

  • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 1 settembre 2016 n. 36329.

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Sicurezza pubblica a forze di polizia. Misure di prevenzione – Pericolosità sociale – Presupposto ineludibile della confisca di prevenzione – Pericolosità qualificata – Ablazione dei beni – Accertamento da parte del giudice – Accertamento del percorso esistenziale del proposto – Pericolosità limitata a un solo anno – Sopravvivenza del clan e assenza di un atto di dissociazione – Sufficienza ai fini della misura – Esclusione.

In tema di misure di prevenzione la pericolosità sociale, oltre a essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche misura temporale del suo ambito applicativo. Ne consegue che, con riferimento alla pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta “pericolosità qualificata”, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale e un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato. Pertanto, a fronte di una pericolosità limitata a un solo anno, è alquanto riduttivo rapportare la pericolosità attuale del proposto alla sopravvivenza del clan e all’assenza di un atto di dissociazione.

  • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza settembre 2016 n. 36640.

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Corte di Cassazione – Sezioni unite penali – Sentenza 1° settembre 2016 n. 36272. La messa alla prova va applicata ai reati con una pena- base massima fissata a quattro anni, senza che nel conto possano pesare le aggravanti, neppure a effetto speciale. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 36272, dirimono il contrasto sul punto, abbracciando la tesi meno restrittiva e valorizzando il fine deflattivo di un istituto teso alla risocializzazione della persona.

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Nova, 12 settembre 2016

In occasione di Eid al-Adha, la Festa islamica del Sacrificio, il re Mohammed VI, ha graziato 698 detenuti in Marocco. Lo ha annunciato in una nota il ministero della Giustizia di Rabat. Si tratta di persone che hanno commesso reati di vario genere, molti dei quali erano però già in libertà condizionata ed hanno usufruito di uno sconto di pena mentre erano in 526 quelli in carcere che domani celebreranno la ricorrenza religiosa con le loro famiglie. Il re del Marocco oltre ad essere capo dello stato è anche un leader religioso nel suo paese e quindi può fare questo genere di concessioni in occasione delle ricorrenze religiose.

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La Tribuna di Treviso, 12 settembre 2016

I ragazzi ingoiano lamette, gridano e si azzuffano. Finiti all’ospedale, creano scompiglio nel reparto tra i pazienti.[…]  all’Istituto penitenziario minorile di Treviso, venerdì mattina, tre giovani detenuti hanno messo in atto una singolare forma di protesta che ha provocato parapiglia e caos prima all’interno della struttura per minori di Santa Bona e poi, successivamente, all’ospedale “Ca Foncello”.[…]

I protagonisti sono tre giovani reclusi nell’Istituto penale minorile di Santa Bona: un mestrino, un palermitano ed un tunisino. Tre giovani già noti per aver creato problemi in passato all’interno della struttura. Venerdì mattina, secondo le poche notizie filtrate sulla vicenda, hanno creato scompiglio e rissa all’interno della struttura. “Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, – spiega in una nota stampa Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria – gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari….

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 Corte Ue – Sentenza 165/14 del 13 settembre 2016. Stop a espulsioni automatiche e a provvedimenti di diniego al permesso di soggiorno di cittadini extra Ue, familiari di cittadini di Paesi membri, senza una valutazione del livello di pericolosità sociale dell’interessato. Solo nei casi di una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale dello Stato membro ospitante, le autorità nazionali possono negare il permesso di soggiorno o procedere all’espulsione di un cittadino di uno Stato terzo che ha l’affidamento esclusivo dei figli, cittadini Ue. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo, con due sentenze depositate ieri (C-165/14 e C-304/14).

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Medicina penitenziaria. 5mila detenuti con Hiv, su 99.446 transitati nelle carceri nel 2015

quotidianosanita.it, 15 settembre 2016

Nel corso del 2015 sono transitate all’interno dei 195 istituti penitenziari italiani quasi centomila detenuti, per l’esattezza 99.446 individui. Sulla base di numerosi studi nazionali di prevalenza puntuale, si stima possano essere circa 5.000 gli HIV positivi, circa 6.500 I portatori attivi del virus dell’epatite B e circa 25.000 i positivi per il virus dell’epatite C. Uno dei problemi principali è che circa la metà di questi sono ignari della propria malattia, ovvero non si sono dichiarati tali ai servizi sanitari penitenziari. È scientificamente dimostrato che la trasmissione di queste infezioni (Hiv-Hbv-Hcv) è 6 volte più frequente da pazienti inconsapevoli rispetto a quelli che ne sono a conoscenza.

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L’indennizzo applicabile anche agli ergastolani

Con recente sentenza n. 2014 del 21 luglio 2016, la Consulta ha stabilito che la riparazione effettiva delle violazioni dei principi della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), resa effettiva a seguito del sovraffollamento, è applicabile anche alle persona detenute condannate all’ergastolo.

Il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 117 ha introdotto, come noto, una inedita previsione in seno alla disciplina dell’ordinamento penitenziario. In particolare, con l’articolo 35-ter, ha tipizzato rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati.l’articolo 35-ter.

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Vietato il controllo indiscriminato su email e internet dei dipendenti

Verifiche indiscriminate sulla posta elettronica e sulla navigazione nella rete del personale sono in contrasto con il Codice della privacy e con lo Statuto dei lavoratori. Questa la decisione adottata dal Garante della privacy con il parere n. 5408460/2016 che ha vietato a un’università il monitoraggio massivo delle attività in internet dei propri dipendenti.

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Pesaro: Eneas, suicida dopo 5 mesi in cella. Per il Gip il caso non va archiviato

Accolta l’opposizione dell’avvocato Fabio Anselmo alla richiesta del pm di chiudere il caso.

Il gip di Pesaro ha accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero in merito all’indagine per “istigazione al suicidio” sulla morte in carcere del 29enne Anas Zamzami. Ad annunciare la notizia è l’avvocato difensore Fabio Anselmo.
“Si tratta di una morte annunciata di uno dei tanti detenuti delle nostre carceri”, spiega l’avvocato. Infatti molti sono i decessi che non a caso vengono definiti “morti di Stato”. Si entra vivi nella sua istituzione (carcere) e se ne esce morti: quando lo Stato priva la libertà dell’uomo, per qualsivoglia motivo, è obbligato a farsi garante della sua incolumità, fisica e psichica. Se questa garanzia viene meno, lo Stato che non sa tutelare l’uomo com’è suo diritto esigere e suo dovere fare, è colpevole.
E questo vale anche per Anas Zamzami, da tutti conosciuto come Eneas, detenuto per il reato di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale, reati commessi nel 2011, e in relazione ai quali è stato condannato a dodici mesi di reclusione. Una condanna da scontare in carcere nonostante che la legge del 2010, “Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi”, preveda appunto la detenzione domiciliare. Per lui non vale: è in cella da cinque mesi. Sette mesi ancora da passare. Ma Anas non ce la fa e secondo la versione ufficiale, la notte tra il 24 e il 25 settembre del 2015 si toglie la vita. Come mai?
L’avvocato Fabio Anselmo spiega perché si tratta di una morte annunciata. Anas entra in carcere il 15 aprile 2015 e presto le sue condizioni peggiorano rendendo necessari numerosi e continui ricoveri in ospedale. Finalmente il 31 agosto viene trasferito al centro di osservazione psichiatrica di Ascoli su provvedimento urgente del giudice di sorveglianza del 4 agosto. Infatti lo stesso centro clinico del carcere di Pesaro riconosce “il venir meno della compatibilità con questa casa circondariale”. Inspiegabilmente il centro di osservazione psichiatrica di Ascoli, dopo nemmeno un mese rispedisce indietro al carcere di Pesaro Anas. Sarebbe guarito. Ma Anas non vuole tornare a Pesaro, in un ambiente peraltro riconosciuto incompatibile con le sue condizioni di salute mentale.
Le lettere di Anas con le quali disperatamente chiede invano di non tornarci fanno venire i brividi. Il 25 settembre il “pacco-detenuto” Anas Zenzami – così lo definisce l’avvocato Anselmo che rende l’idea di come vengono trattati i detenuti – viene riconsegnato alla casa circondariale di Pesaro. Il 25 settembre Anas Zenzami, cittadino del Marocco, viene trovato morto impiccato nella sua cella. Ora grazie all’opposizione, l’indagine continua per altri sei mesi. Il giudice Giacomo Gasparini invita il pm a proseguire le indagini e valutare se ci sia stata effettivamente l’incompatibilità con la permanenza in carcere e, in caso positivo, quali misure non sono state intraprese per scongiurare il suicidio.

di Damiano Aliprandi  –   Il Dubbio, 17 settembre 2016

vedi post su Eneas qui qui  qui

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Detenuto tenta di impiccarsi al carcere di Regina Coeli a Roma

Nel corso della giornata di sabato 17 settembre 2016, un detenuto ha tentato di impiccarsi nel carcere di Regina Coeli. Come riferito da Massimo Costantino, segretario della Cisl-Fns, l’intervento di un agente ha evitato conseguenze peggiori e l’uomo è stato salvato. Si tratta dell’assistente capo di sezione che è intervenuto in tempo. Secondo Costantino, comunque, sono quasi mille i detenuti del carcere romano e il sovraffollamento non può più essere sostenuto.

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 Non è reato coltivare una piantina di marijuana sul balcone.

Così ha deciso la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza 40030 pubblicata oggi 27/9/2016.
Il tribunale di Siracusa il 16 febbraio scorso aveva deciso il “non luogo a procedere” per un signore di Siracusa trovato con una piantina di canapa indiana sul terrazzo. Per il tribunale, la concentrazione del principio attivo (il Thc era parti all’1,8%) e la presenza di un’unica pianta permettevano di escludere la diffusione della droga leggera, sufficiente per uso personale. Una decisione contro cui si è opposto il procuratore della repubblica per violazione della legge penale, in particolare degli articoli 425-428 del Codice di procedura penale. Secondo il procuratore la condotta andava sanzionata in base alla tipologia di pianta, alla quantità di principio attivo sopra i minimi di legge, al peso della piantina pari a 312 mg contro il limite dei 25 mg previsto dalla legge e al fatto che era già alta un metro pur non essendo arrivata a completa maturazione.
La sentenza – La Cassazione rigetta il ricorso ritenendo una sola piantina coltivata su un terrazzo in un contesto urbano non è in grado di incrementare il mercato delle sostanze stupefacenti. La Cassazione rigetta il ricorso perché esclude “… che da questa coltivazione possa derivare quell’aumento della disponibilità della sostanza e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi della offensività e punibilità della condotta ascritta”.

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corrieresalentino.it, 4 ottobre 2016

Lecce: 38enne si uccide col gas della bomboletta in dotazione ai detenuti

Il dramma si è consumato nel penitenziario di Lecce ieri 4 ottobre, Un uomo di 38 anni, Mauro Z. di Campi Salentina, si è tolto la vita nel reparto di infermeria della casa circondariale leccese di Borgo San Nicola, respirando il gas dalla bomboletta da campeggio in dotazione ai detenuti. Il suicidio è avvenuto ieri 4 ottobre durante la notte.

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Status di rifugiato a vittime di persecuzioni causa del proprio orientamento sessuale

Corte di Cassazione – Sezione VI – Sentenza 4 agosto 2016 n. 16361. Per ottenere il beneficio della protezione internazionale a causa della propria condizione omosessuale, il richiedente non può limitarsi ad esibire un racconto contraddistinto da genericità e stereotipia dovendo offrire allegazioni specifiche, concrete e chiare anche per consentire al giudice di attivare i propri poteri officiosi. La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16361 resa il 4 agosto 2016, torna ad occuparsi di onere della prova che il richiedente deve soddisfare al fine di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato poiché persona vittima di persecuzione a causa del proprio orientamento sessuale.

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Il matrimonio e l’effettiva convivenza con una cittadina italiana non evitano la revoca del permesso di soggiorno allo straniero che commette una rapina. La Corte di cassazione, con la sentenza 19337, respinge il ricorso di un cittadino tunisino che protestava contro il provvedimento del questore che aveva “annullato” il suo permesso a restare in Italia per motivi familiari, dopo la condanna definitiva. Secondo il ricorrente il sì con un’ italiana creava un suo diritto a restare nel territorio, in nome dell’unione familiare, che poteva essere sacrificato solo se era in gioco la sicurezza dello Stato.
Per la Cassazione però le cose stanno in modo diverso. La titolarità del permesso di soggiorno – spiegano i giudici -consente a chi ne è in possesso di esercitare molti diritti, anche sociali, benefici che devono essere mantenuti rispettando le regole di convivenza civile, soprattutto in relazione alle violazioni delle norme penali. E la verifica sull’osservazione delle norme è stringente e basata sul caso concreto alla luce della condotta complessiva. La pericolosità sociale del cittadino straniero, può essere desunta anche da reati che mettono a rischio l’incolumità pubblica come la rapina, soprattutto se continuata come nel caso esaminato. A questo il ricorrente aggiungeva la mancanza di un lavoro fisso. Dalla sua il cittadino tunisino aveva una promessa di impiego non ancora concretizzata, un’attività di volontariato presso una Onlus e una donna italiana che lo aveva sposato e con la quale conviveva. Ma per i giudici prevale la pericolosità sociale.

Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2016

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MONSELICE. Sessantenne  ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Madre Teresa di Calcutta, a Schiavonia, e sottoposto a un Tso (trattamento sanitario obbligatorio), è  deceduto a poche ore di distanza.

http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/11/03/news/obbligato-al-ricovero-e-muore-e-giallo-1.14354503?ref=hfmppdec-4

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