La psichiatria uccide: 4 morti in Tso dalla scorsa estate. Fermiamoli!

Nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Lamezia, un uomo di 39 anni, F.T. è stato trovato morto il 16 maggio 2016. Era stato condotto coattivamente nel reparto per essere sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio).

no TsoQuesto assassinio si va ad aggiungere alle tre morti dalla scosa estate (vedi qui):

-Il 5 agosto scorso a Torino, un uomo di 45 anni, Andrea Soldi, è morto mentre i vigili urbani lo avevano catturato per sottoporlo a Tso. Sembra un arresto cardiocircolatorio, non è riuscito ad arrivare vivo in ospedale. Testimoni descivono vigili urbani che l’hanno preso e stretto per il collo, finché non è caduto a terra privo di vita.

-Il 30 luglio 2015 a Carmignano Sant’Urbano (Pd), un ragazzo di trentatré anni, Mauro Guerra, è stato ucciso da un carabiniere durante un Tso. Il sindaco afferma di non aver autorizzato il provvedimento di Tso. All’arrivo di alcuni carabinieri presso l’abitazione di Mauro, lui in preda allo spavento, ha tentato la fuga. Uno dei carabinieri ha sparato e l’ha ucciso. Il maresciallo si è giustificato dicendo di aver mirato al braccio ma Mauro è stato colpito alla schiena a soli due metri e mezzo di distanza.  Perché sono intervenuti i carabinieri e non i sanitari del 118?

-L’8 giugno è morto durante un Tso, un uomo di 39 anni Massimiliano Malzone, il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno, stessa localita dove fu ucciso da un Tso Francesco Mastrogiovanni, il maestro di Castelnuovo Cilento, deceduto il 4 agosto 2009. —

Quattro persone morte in Tso dalla scorsa estate. Non è servita a nulla l’indignazione per la brutale morte di Francesco Mastrogiovanni? (vedi qui). Eppure è sufficiente che gruppi di persone con alta coscienza sociale si organizzino volontariamente nei territori per contrastare il giudizio sullo “stato di necessità”, e sul “ricovero unica soluzione possibile“, emesso da uno psichiatra che fa scattare l’aggressione in Tso.

TsoCi sono tanti altri modi di intervenire, anche in casi di agitazione grave; ci sono e possono essere attuati da chi ha una valida professionalità e un saldo rispetto per la libertà e l’identità delle persone.

Secondo le leggi attuali e secondo il procuratore Raffaele Guariniello, che ha  indagato  sulla morte di Andrea Soldi, e a dicembre scorso ha rinviato a giudizio tre vigili urbani e un medico psichiatra per omicidio colposo, il Tso può essere ordinato in condizioni eccezionali, di emergenza, dopo aver sperimentato tutti gli altri metodi alternativi. Il principio che sorregge la nostra sanità è che «gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari». Andrea Soldi rifiutava di prendere le medicine e di farsi visitare dal Centro di salute mentale che lo aveva preso in carico da almeno sette mesi, ma questo non costituiva un motivo sufficiente, secondo l’accusa, per autorizzare il Tso.

Fermiamo il massacro, fermiamo i Tso!   E’ possibile!

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Che diciamo delle riforme in corso? … e della violenza sulle donne?


meno orario

… e della violenza degli uomini contro le donne?

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“Se avessi un martello … mi piacerebbe distruggere il Patriarcato”

                 L’ho trovato!

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40 anni fa… lo stato tedesco suicidava la compagna Ulrike Meinhof

Erano le 7,39 del mattino del 9 maggio 1976. In una prigione di massimo isolamento dello stato della Germania Ovest viene suicidata la compagna Ulrike Meinhof, militante della RAF. La Rote Armee Fraktion Attiva in Germania Ovest dal maggio 1970 al 1993.

Ulrike Meinhof  fu arrestata il 15 giugno 1972 a Langenhagen vicino a Hannover. Da qui cominciò il lungo calvario di isolamento di Ulrike e delle altre e altri prigionieri della Raf.

Ricorda Jürgen Bäker (prigioniero Raf) «è stata una detenzione orribile…non la si può definire altrimenti. La carcerazione preventiva a Berlino-Moabit è micidiale , non si può dire altro , e io vi sono stato per quasi cinque anni e mezzo. Cinque anni e mezzo in cella di isolamento. Fino a ventitre ore al giorno in cella- in quelle condizioni ci si deve inventare qualcosa per non crepare».

Ulrike fu portata nel penitenziario di Colonia- Ossendorf, dove le imposero rigide condizioni di isolamento, per giunta la cella si trovava in un’ala del carcere separata dal resto dell’edificio. Non poteva sentire voci né alcun rumore; isolata anche acusticamente per 24 ore al giorno nel più micidiale silenzio assoluto.

Scrive Ulrike : «…sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che la scatola cranica debba spezzarsi, sollevarsi)… La sensazione che la cella si a “in viaggio”. Ti svegli, apri gli occhi: la cella sta viaggiando; di pomeriggio, quando entra la luce del sole  -di colpo si ferma. La sensazione del viaggiare però non riesci a togliertela. Non puoi dire con certezza se tremi di febbre o di freddo – in ogni caso hai freddo.  Per potere parlare in tono normale devi fare lo stesso sforzo che faresti per parlare a voce alta, quasi come urlassi.

La sensazione di ammutolire – non riesci più a identificare la semantica delle singole parole, la puoi solo indovinare – i suoni sibilati sono assolutamente insopportabili. Dolori alla testa.

La costruzione della frase, la grammatica, la sintassi – non sono più controllabili. Mentre scrivi: due righe – alla fine della seconda riga hai già dimenticato quello che hai scritto all’inizio della prima. La sensazione di bruciare interiormente».

E ancora: «Agenti, visita, cortile ti sembrano essere fatti di celluloide – i visitatori non ti lasciano niente. Mezzora dopo riesci a malapena a ricostruire se la visita è avvenuta oggi o la settimana scorsa … La sensazione che il tempo e lo spazio siano incastrati uno nell’altro – la sensazione di trovarsi in una stanza di specchi deformanti – di sbandare. La sensazione di essere spellata».

Di fronte alla commissione investigativa internazionale che nel 1978 si occupò della morte di Ulrike (quella che affermò che Ulrike non si era suicidata) lo psicologo danese Jörgen Pauli Jensen dichiarò che «attraverso simili condizioni detentive veniva “annientato” il bisogno umano di contatti sociali e di percezione sensoriale… sul piano fisico si diffonde lentamente la distruzione delle cosiddette funzioni vegetative (mutamenti patologici degli istinti rispetto al bisogno di sonno , di cibo, di dissetarsi, del tenesmo della vescica, subentrano cefalee, perdita di peso, ecc). mentre sul piano psichico si stabilisce instabilità emotiva (rapporto sproporzionato tra improvvise sensazioni di angoscia, gioia e rabbia)».

Ulrike è rimasta in queste condizioni dal giugno 1972 al febbraio 1973 per complessivi 273 giorni.

Scrive Ulrike: «Io so davvero perché ho sostenuto che quest’ala è il tentativo di estorcere un suicidio. Perché tutta l’energia dedicata a resistere al silenzio assoluto, nel silenzio in cui nulla è assolutamente percepibile, alla fine non ha altro oggetto che il detenuto stesso. Non potendo combattere il silenzio, perché si può combattere soltanto ciò che si subisce direttamente. A questo fine mira la detenzione nell’ala morta: all’autodistruzione del detenuto»…«A partire da metà dicembre mi è stato chiaro di doverne uscire lottando.. è mio dovere lottare per uscirne».

Nel marzo 1973 Ulrike era stata finalmente spostata dall’ala morta. Sempre in isolamento ma in un’altra ala del carcere, come Astrid Proll, Holger Meins e Ronald Augustin. Ma alla fine dell’anno fu di nuovo trasferita nell’ala morta.

Il 21 maggio 1975 a Stammheim, sede di uno dei più tremendi carceri speciali, nei pressi di Stoccarda, era iniziato il processo a Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe.

Vedi qui   e  qui  il tentativo di psichiatrizzare Ulrike. Vedi altre notizie su Ulrike e sui suoi scritti   qui  qui

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Venerdì 13 maggio: presidio di protesta al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) per DUE gravi problemi

Il 25 settembre 2015 Eneas muore di carcere a Pesaro.

Dopo quasi un anno di indagini escono tutti/e liberi/e da ogni responsabilità decidendo che si è trattato di un suicidio dovuto alle sue condizioni psichiche.

Ancora una volta i crimini dell’amministrazione carceraria rischiano di restare impuniti e i mandanti e i veri responsabili sconosciuti.

VENERDI’ 13 MAGGIO INVITIAMO TUTTI/E A PARTECIPARE AD UN PRESIDIO DAVANTI AL DAP ALLE ORE 14.00

Per partire tutte/i insieme:
APPUNTAMENTO A STAZIONE TRASTEVERE ALLE ORE 12.30

OPPURE DAVANTI AL DAP (Via Silvestri, 251) ORE 14.00

Il DAP è l’organismo che deve garantire la sicurezza dei detenuti e delle detenute.

Finalmente denunciamo i mandanti e i veri responsabili di tutto quello che succede nelle carceri.

le amiche e gli amici di Eneas

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Carcerati negli Stati Uniti in agitazione

I detenuti di cinque carceri del Texas si sono impegnati a rifiutare di lasciare le loro celle.

È uno sciopero contro il lavoro forzato nelle carceri. I motivi dello sciopero sono ben spiegati in un volantino di 5 pagine scritto dai detenuti  che hanno utilizzato la capacità di organizzarsi senza essere individuati, nonostante il rigido controllo del sistema penitenziario degli Usa. Così inizia il volantino: “A partire dal 4 aprile 2016, tutti i detenuti in tutto il Texas si asterranno dal lavoro al fine di ottenere attenzione da parte dei politici e della comunità del Texas.” Le richieste dei detenuti vanno dalla riforma del sistema della libertà condizionale, a quelle per rendere più umane le condizioni di detenzione, per ridurre e abolire la pratica dell’isolamento. Si chiede inoltre un credito di “buona condotta” per la riduzione della pena, per migliorare il sistema sanitario e per metter fine al contributo medico di $ 100; in conclusione per un drastico ridimensionamento della popolazione carceraria dello stato.

In Texas, i prigionieri hanno tradizionalmente lavorato in aziende agricole, nell’allevamento detenuti lavoridi maiali e nella raccolta del cotone, in particolare nel Texas orientale, dove molte carceri occupano ex piantagioni.

La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare, e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario. Judith Greene, un’analista di politica penale, ha detto a Intercept: “Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all’ora“. Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. “Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l’amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto“.

Erica Gammill, direttore di Justice League, un’organizzazione che lavora con i detenuti in 109 carceri del Texas. “Vengono pagati nulla, zero. E ‘essenzialmente lavoro forzato. Non vogliono pagare i lavoratori del carcere, dicendo che il denaro serve per vitto, alloggio e per compensare il costo della loro detenzione.” La maggior parte dei prigionieri lavorano per le carceri stesse, prendendo ben al di sotto del salario minimo in alcuni stati, e non più di 17 centesimi all’ora in strutture gestite da privati. In Texas e pochi altri stati, soprattutto nel Sud, i prigionieri non vengono pagati affatto.

Nonostante le difficoltà di comunicazioni tra detenuti di diverse carceri, la mobilitazione si sta diffondendo in tutte le carceri: Dal 1° aprile, un gruppo di prigionieri di Ohio, Alacarceri-Texasbama, Virginia, e Mississippi ha organizzato uno “sciopero di prigionieri coordinato a livello nazionale contro la schiavitù in carcere” che si terrà il 9 settembre, nel 45 ° anniversario della rivolta nella prigione Attica (vedi il post sulla rivolta di Attica ). “Chiediamo non solo la fine della schiavitù in carcere, smetteremo di essere schiavi noi stessi“. “Non possono mandare avanti queste strutture senza di noi.

Le proteste e gli scioperi nelle carceri Usa hanno visto una rinascita negli ultimi anni dopo un rallentamento dovuto al maggiore uso dell’isolamento nei confronti dei detenuti politicamente attivi. Nel 2010, migliaia di detenuti provenienti da almeno sei carceri della Georgia, organizzati attraverso una rete di telefoni cellulari di contrabbando, si sono rifiutati di lasciare le loro celle per andare a lavorare, chiedendo migliori condizioni di vita e un compenso per il loro lavoro. Sono seguite proteste carcerarie in Illinois, Virginia, North Carolina, e Washington. Nel 2013, i prigionieri della California si sono coordinati in uno sciopero della fame per protestare contro l’uso dell’isolamento. Il primo giorno di quella protesta, 30.000 prigionieri in tutto lo Stato hanno rifiutato il pasto.

A marzo, sono scoppiate proteste a Holman Correctional Facility, un carcere di massima sicurezza in Alabama: almeno 100 prigionieri hanno preso il controllo di una parte della prigione e accoltellato una guardia e il guardiano. “Dobbiamo lottare contro l’economia del sistema di giustizia penale, perché se non lo facciamo, non possiamo costringerli a ridimensionarsi” ha detto un attivista. “Appiccando incendi e cose del genere che si ottiene l’attenzione dei media. Ma io voglio organizzare qualcosa che non sia violento. Se ci rifiutiamo di lavorare gratis, costringeremo l’istituzione a prendere delle decisioni“. “La schiavitù è sempre stata un istituto giuridico“, ha aggiunto. “E non è mai finita. Esiste ancora oggi attraverso il sistema di giustizia penale”.

Fonte:  theintercept.com (in inglese)
Tradotta in italiano qui

 

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Il controllo repressivo territoriale: il Daspo cittadino

Prende corpo il previsto controllo repressivo territoriale:  il Daspo cittadino

da: Il Sole 24 Ore, del 17 aprile 2016

Sicurezza, arriva il Daspo cittadino

Pronto il decreto del governo per rendere più vivibili le aree urbane. Un “Daspo cittadino” per allontanare chiunque commetta reati contro la sicurezza nelle città. Una serie di regole più severe sul degrado urbano, la vivibilità dei centri, il decoro nelle strade. Con una stretta, in particolare, contro gli ambulanti che vendono prodotti contraffatti. Sono soprattutto immigrati.

Matteo Renzi, in un’intervista ieri al Resto del Carlino, ha detto che “a maggio il governo interverrà con una legge sulla sicurezza nelle città”. A scanso di equivoci, ha precisato: non si tratta “certo di militarizzare” i centri abitati. L’annuncio del presidente del Consiglio riguarda un testo ben noto agli addetti ai lavori, elaborato a lungo dai tecnici del ministero dell’Interno di concerto con il dicastero della Giustizia.

Il disegno di legge cosiddetto sulla “sicurezza urbana” è stato trasmesso da tempo al Dagl, il dipartimento Affari giuridici e legislativi di palazzo Chigi guidato da Antonella Manzione. Renzi, ora, dà il segnale di via libera. Non è escluso che l’impianto originale sia aggiornato. Certo è che il testo, una volta approvato da Palazzo Chigi, va a toccare in teoria la vita quotidiana di ogni città medio-grande. Il valore politico del provvedimento è testimoniato, per esempio, da una riunione svoltasi il 5 marzo 2015 al Viminale tra tutti i vertici del ministero, compreso il ministro Angelino Alfano, con il numero uno dell’Associazione nazionale comuni d’Italia, Piero Fassino. I contenuti (www.interno. it) li indicò proprio il ministro dopo l’incontro con l’Anci: “La priorità è fare, delle nostre città, città più sicure” ma anche “garantire ai cittadini la percezione della sicurezza”. Davanti a fenomeni come “i writer, i parcheggiatori abusivi, contraffazione e abusivismo commerciale, racket dell’accattonaggio” Alfano disse che “si intende individuare altre fattispecie di reato”.

Previsti anche più poteri ai sindaci attraverso le loro ordinanze. La bozza del disegno di legge – sempre che non si trasformi in un decreto legge: ipotesi complessa, però – è stata definita dai tecnici di Alfano e contiene una formulazione suggestiva: il “Daspo cittadino”. Il divieto cioè di soggiorno nei luoghi dove il soggetto ha ricevuto le contestazioni di violazione delle norme. Nel mirino del provvedimento ci sono, per esempio, gli ambulanti – soprattutto immigrati – che vendono merce contraffatta. Ma anche negozianti di “croste” e quadri da quattro soldi in luoghi di particolare valore artistico. In analogia con il “Daspo” calcistico – il divieto di accedere alle manifestazioni sportive disposto dal questore contro chi ha commesso violenze e altri illeciti prima, durante e dopo le partite – il “Daspo cittadino” dovrebbe costituire un deterrente più generale: nel caso della vendita di merce contraffatta, per esempio, violare la disposizione del questore tornando nelle zone di quel commercio illegale trasforma una violazione amministrativa in un reato.

Nelle bozze, poi, erano state ipotizzate una serie di aggravanti su furti e rapine. E norme più severe se le violenze e i danneggiamenti sono commessi durante una manifestazione pubblica. Per controbilanciare questa indicazione era stato inserito il codice identificativo per gli agenti in attività di ordine pubblico. Tema molto delicato per il dipartimento di Ps, guidato da Alessandro Pansa, e tutto il sistema delle forze dell’ordine. A maggio si vedrà se anche queste disposizioni entreranno nel testo finale.

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E’ sempre più necessario autorganizzarci in Comitati territoriali per contrastare la Repressione

Vedi le analisi precedenti su questo blog:

Carcere, repressione e controllo sociale: cosa cambia

Repressione, attualità e tendenze: come difenderci

Manifestaz

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Parlare di abolizionismo carcerario è come parlare di abbattimento del capitalismo!

Parlare di abolizionismo carcerario è come parlare di abbattimento del capitalismo!

L’abolizionismo carcerario non riguarda un aspetto isolato del sistema sanzionatorio basato sulla reclusione carceraria. Per alcuni, tra cui io, per abolizionismo intendiamo qualcosa di più ampio del riferimento alla sola galera come groviglio di mura, sbarre, urla e secondini. Intendiamo riferirci al senso più ampio del termine per individuare e sottoporre a critica non una sola parte del sistema della giustizia criminale, ma il sistema stesso della giustizia nel suo complesso: l’ambito dell’ordinamento giudiziario e del diritto stesso.

Riteniamo questo un vero e proprio “problema sociale”, non fa parte della soluzione del “dilagare della criminalità” ma ne è una delle cause. La sua abolizione è l’unica risposta adeguata al problema medesimo.

Abolizionismo è soprattutto una prospettiva, un metodo di indagine e di ricerca, di attività concrete e militanti applicate al sistema della giustizia criminale, che si intende, via via, depotenziare e tendenzialmente abolire. Senza escludere, anzi moltiplicare, le iniziative giorno dopo giorno per sostenere la popolazione detenuta nella sua lotta quotidiana contro il carcere.

Il carcere, il sistema di reclusione basato sulla privazione della libertà, produce nella persona reclusa annichilimento, emarginazione, annullamento dell’identità e stigma indelebile. Queste afflizioni si producono anche per mezzo delle misure alternative, quelle che portano il controllo penale dal carcere al territorio di provenienza.

Il carcere è dunque l’esito del sistema penale.

Il sistema penale è parte significativa, ma pur sempre parte, di qualcosa di più grande, ossia dell’ordinamento giuridico che regola la condotta delle donne e degli uomini di una formazione sociale. Quell’insieme di obblighi e divieti, di norme coattive, del diritto imposto dalla classe dominante e sfruttatrice, per salvaguardare e riprodurre le relazioni sociali vantaggiose a se stessa. Un sistema basato sullo sfruttamento della forza lavoro utile ad accrescere il capitale investito. È insomma l’ordinamento giuridico dell’ordine capitalistico.

Poiché il carcere ha avuto la sua origine nel radicamento e nella diffusione del sistema industriale in ogni angolo del pianeta, ha dunque molto a che vedere con la nascita della classe operaia, delle sue lotte e dei suoi livelli di organizzazione; dei suoi andamenti altalenanti in termini di avanzamento e arretramento. Ha molto a che vedere con il mantenimento della condizione subalterna della classe operaia, terrorizzando e aggredendo ogni manifestazione di riscossa operaia, limitando le forme di conflitto a quelle tollerabili e innocue per la produzione, contrastando tutti i tentativi di liberazione della classe subalterna dalla sottomissione ai processi di intensificazione dello sfruttamento. Ha intralciato in ogni modo il concretizzarsi della prospettiva operaia di liberazione dal dominio capitalistico.

La critica del sistema del controllo penale e la sua soluzione, quindi, avrebbe dovuto essere affrontata dallo stesso movimento operaio organizzato. Quel movimento avrebbe dovuto mettere in discussione – e inizialmente l’ha fatto con grande energia e profondità – l’intero apparato della cosiddetta “giustizia”, poiché esercitata in ambito capitalista e a questo vantaggioso. Avrebbe dovuto combatterla perché quella “giustizia” ha avuto e avrà sempre il compito di garantire la riproduzione del sistema di sfruttamento della forza lavoro, così come del mantenimento delle classi sociali e della disuguaglianza crescente, dell’oppressione di genere e del razzismo, del mantenimento e difesa della proprietà privata per chi ce l’ha e del non accesso ad essa per chi non ce l’ha. Questa “giustizia di classe” ha operato e continua ad operare per mezzo del controllo penale che culmina nello spregevole apparato carcerario, punendo ogni deviazione dall’ordine produttivo e ogni dissenso dalla passiva accettazione dello stato di cose presenti.

Il movimento operaio avrebbe dovuto combattere e abolire il carcere, il sistema penale, l’ordinamento giuridico e il diritto, capisaldi dell’ordine capitalista. Ma ciò non è stato fatto. Al contrario, spesso, il movimento operaio si è atteggiato a difensore di quella legalità e di quella giustizia che colpiva prevalentemente, e quasi esclusivamente, il proletariato.

Questa involuzione ben rappresenta la deriva che ha portato le organizzazioni operaie nelle braccia del capitale e del mantenimento dello stato di cose presenti, con l’adesione passiva all’equivoco che afferma essere produttive le attività legali e parassitarie quelle criminali, ideologia smentita dalle cronache, ma che impregna le politiche penali e costituisce una difficoltà in più per affermare una cultura abolizionista.

Su questo equivoco si è affermata una eccessiva attenzione nel campo del diritto ed esaltazione a valori quali produttività, prestazione, sacrificio, merito, utilità e così via.

Va dunque ripreso daccapo il percorso di una prospettiva abolizionista. Abolizione del carcere, del sistema penale, dell’ordinamento giuridico, del diritto e del sistema statuale che ne impone coattivamente il rispetto, allo stesso modo che fosse un apparato privato della classe dominante.

Questi i passaggi inevitabili per l’abolizione del capitalismo.

Altre modalità di relazioni sociali, libere dalla dittatura del mercato, del capitale, della merce, del profitto, dello sfruttamento, della proprietà e per la piena affermazione delle necessità e desideri umani produrranno altre regole ma sottoposte alle aspettative umane, non come avviene oggi dove i bisogni umani sono sottoposte e schiacciati dalle regole dell’ordinamento esistente.

Liber carcere

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Sul piano storico, da qualunque punto di osservazione lo si guardi, il carcere si rivela fallimentare in ogni aspetto: nel rispondere alle esigenze di difesa sociale e persino catastrofico nel proposito dichiarato della riabilitazione del reo. Analoga catastrofe si registra nella prevenzione generale, se con questa davvero si intende una sorta di messaggio dissuasivo o deterrente rivolto ai cittadini in generale.

Il carcere e il sistema penale che lo utilizza, può essere assimilato a un crimine contro l’umanità. Difatti se decodifichiamo i segni contenuti della ritualità ossessiva del carcere vediamo quanto questi siano controproducenti nel trasmettere modelli di comportamento validi per una convivenza sociale partecipe e solidale. Quei codici trasmettono: egoismo, individualismo, competizione, deresponsabilizzazione, esaltazione degli errori altrui per sottolineare i non-errori propri, infantilizzazione, doppiezza, ipocrisia, insincerità per non essere puniti, servilismo, e tutti gli altri che vorrà aggiungere chi ha provato quell’inferno.

Non diversamente operano le misure alternative, non diverse qualitativamente dal carcere, che si orientano agli obiettivi di incapacitazione, invalidazione, interdizione, poiché di diverso hanno solo il fatto che spostano nel territorio le funzioni espletate nel carcere e i presupposti del «modello giustizia».

Quest’ultimo, come è noto, attribuisce alla pena dei principi di restituzione autoritaria, secondo cui il carcere è la giusta attrezzatura che risponde “proporzionalmente” – secondo la teoria, ma non più nella pratica – alla gravità dell’offesa e alla violazione dell’ordine.

La pratica ci dimostra con abbondante casistica che è spesso la severità della pena a suggerire la presunta gravità del reato, e non viceversa, in un universo simbolico che si ritiene collettivamente condiviso ma che tale non è. [Mathiesen, Perché il carcere?]

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salvatore,  Aprile 2016 – 1° parte
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Il Rifiuto del Lavoro

Locandina 16 aprile_def“Il rifiuto del lavoro salariato è un affermazione dei bisogni radicali di libertà, di piacere, di esperienza ed è comprensione del carattere universale della rivendicazione di libertà dal lavoro di cui era portatrice la classe operaia di fabbrica e, pertanto, è un implicita violazione delle regole produttive stabilite dal capitale e dalla mediazione sindacale. è il rifiuto più o meno organizzato dell’obbligo di produrre plusvalore”

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A un anno dalla “chiusura” degli OPG ancora detenzione

E’ passato un anno…

Al 30 giugno 2010  i sei OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) esistenti in Italia contenevano un totale di 1.547 persone detenute.

Col decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211, successivamente convertito in legge 17 febbraio 2012, n. 9, era stato disposto all’art. 3-ter la chiusura degli OPG per la data del 31 marzo 2013. Dimettere i dimissionabili e sostituirli con le REMS (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) per proseguire i programmi terapeutici. a livello regionale.  Il decreto legge 25 marzo 2013 n. 24 ha poi prorogato tale chiusura al 1º aprile 2014. Altra proroga: il decreto legge 31 marzo 2014, n. 52 – convertito in legge 30 maggio 2014, n. 81- ne ha disposto un’ultima proroga sino al 31 marzo 2015.

È passato un anno e ancora 90 persone sono rinchiuse nei quattro Opg “superstiti”.

A Montelupo Fiorentino ci sono 40 internati, a Reggio Emilia 6 internati, ad Aversa 18 internati, a Barcellona Pozzo di Gotto 26 internati. Quello di Castiglione delle Stiviere ha solo cambiato targa, “trasformandosi”  da Opg in Rems con oltre 220 internati. Altre 230 persone sono oggi ristrette nelle Rems.

A causa del ritardo eccessivo di molte regioni nel predisporre le Rems, il governo ha isituito un Commissario per il superamento degli OPG: Franco Corleone.

Come denuncia StopOpg, «In questi mesi abbiamo visitato le Rems, denunciando le situazioni in cui è più evidente la logica custodiale (sbarre, filo spinato, guardie giurate armate, poca o nessuna possibilità di attività esterne alla struttura per gli internati, una magistratura più restrittiva)».

Il discorso è rimasto lo stesso: logica custodiale e punitiva, dunque “detenzione”. È questo il nemico da battere: la logica custodialista che non assomiglia nemmeno un po’ al percorso riabilitativo.

La battaglia è tutta da giocarsi: abolire la detenzione, togliere dall’immaginario comune l’aberrazione di rinchiudere, separare, annientare le diversità.

Vedi qui la storia degli OPG

e vedi altri post sul problema del controllo psichiatrico:  qui,   qui  e  qui 

OPG

 

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… rumori di guerra …

Manif 4.86…sembra un giornale di questi giorni. Macché è di 30 anni fa. Guardate la data: 8 aprile 1986. Eppure il titolo a tutta pagina somiglia a quelli di oggi: NERVOSISMO MILITARE e sotto, Si riaccende la miccia libica. A Roma dissapori tra politici e stati maggiore. A Washington nuovi piani di attacco.
Ancora la Libia in primo piano.

Sembrano  “notizie” recenti anche glli alri articoli: Minacce terroriste “alle strade italiane”, e  Ammazzato di botte un detenuto tossicodipendente. La storia si ripete! Queste non sono “notizie” ma la realtà dell’assetto capitalistico attuale. e poi la “notizia” non è un fatto nuovo ma un comunicato che  viene diffuso dai media, spesso in sintonia con i governanti o con settori di potenti, per imporre paure e timori.

Trenta anni fa come oggi molte e molti si domandano: “Ci sarà la guerra?

Ma la guerra c’è già. Combattimenti, esplosioni e morti ce ne sono tanti e ovunque. E non passa giorno che non si contino morti e feriti.  Alcuni la chiamano “terza guerra mondiale” altri “guerra permanente”. Ma la parola “guerra” non è quella appropriata a definire lo scontro militare di oggi,  non coincide con l’immagine di “guerra” che si è radicata nel nostro mmaginario grazie alle esperienze dei secoli passati.

Questa è un’altra “guerra”, non ha le “regole” delle guerre precedenti, non viene dichiarata dalle cancellerie con note che motivano gli obiettivi di ciascuna potenza. Non prevede scambi di prigionieri, non prevede tavoli per le tregue o le sospensioni più o meno prolungate. Tantomeno  prevede tavoli per trattative di pace. Erano queste le speranze cui si appigliavano le popolazioni massacrate nelle guerre precedenti. Speranze imconsistenti, spesso, che toglievano alle popolazioni la voglia di lottare per fermare la guerra.

Uccisione, massacri, paura, che possono colpire chiunque abiti oggi questo pianeta. Delle  “guerre” precedenti il massacro attuale conserva il senso di uccidere più gente possibile, di commerciare armi, di esporre tutto l’odio  maturato nei lunghi decenni e secoli di oppressione, sfruttamento e devastazione di troppe aree del pianeta e indirizzarlo verso obiettivi falsi, errati.  Un odio distruttivo cresciuto all’interno della sordità infame dei potenti che non hanno voluto ascoltare l’urlo che proveniva dalla disperazione seminata ovunque. Un odio devastante utilizzato dalle potenze per destabilizzare aree del pianeta con fini di controllo.

Ora che quell’odio disperato è esploso, la politica dei governi che l’ha scatenato è incapace di fare altro se non “militarizzare” le città e i luoghi di lavoro, per trasformare questo massacro in ulteriori  profitti per i capitalisti e per far aumentare la sottomissione dei proletari immobilizzati  dalla paura.

Possiamo reagire a tutto ciò e prendere nelle nostre mani il nostro futuro?

Possiamo fermare questo massacro e dare a questo mondo e alle donne e uomini che lo abitano occasioni per gestirsi la propria esistenza?

Certo che possiamo! Si tratta di cominciare con determinazione e ostinazione la costruzione di organismi del contropotere in ciascun territorio e ovunque per contrastare punto per punto e in ogni momento qualsiasi scelta dei potenti. Il capitalismo probabilmente è morente e vorrebbe trascinare tutta l’umanità nella sua fine.

NON  DOBBIAMO  PERMETTERLO!!!

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