La parola ai prigionieri: i pestaggi di ieri e di oggi

Tre lettere dal carcere, le prime due sono recenti: ottobre 2002 dal carcere di Rebibbia a Roma, novembre 2008 dal carcere di Benevento. La terza lettera è del 1971. Raccontano storie di pestaggi. Storie simili nonostante il tempo che le separa sia  di 30, 40 anni. Confrontatele! Qualcosa però è cambiato: i soggetti. Oggi i nomi non sono italiani. Sono loro, i migranti, la nuova forza lavoro da disciplinare e sottomettere alle regole del duro sfruttamento capitalistico, per mezzo del carcere e del suo “figlioccio” il Cie. Quindi non è cambiato nulla. Sono consuete scene di lotta di classe! Forse noi compagni e compagne dovremo starci più dentro e non ai margini, e lottare insieme.

Sono Chebbi Noureddine Ben Othman cittadino tunisino detenuto presso la casa circondariale di Rebibbia dal 16.8.2002 perchè sono stato picchiato, senza permesso, questo è il mio reato e racconto a voi il mio caso con l’assoluta sincerità.                         Ero vicino ad una macchina Fiat Uno abbandonata ad Ostia vicino il Mercato Comunale quando me è saltato addosso quel tizio accompagnato da una donna diciandomi che volevo rubbare la macchina. E ha cominciato a strangolarmi privandomi il respiro. Ho gridato alla gente di chiamare la polizia.                                                                                                                                                                                       Quel agente secondo me e secondo la logica non ha reagito per amore del lavoro o della patria, perchè l’amore non violenta e non mena e non manda il prossimo in carcere ingiustamente, lui ha reagito per odio e quel odio mi ha fatto entrare in carcere per una condanna d’un anno e due mesi e spero che l’amore e la giustizia me faranno uscire. L’agente si è rotto la mano perchè dio esiste, ero ammanettato quando mi ha seguito in Questura con il suo scooter e mi ha trascinato davanti tutti i suoi colleghi dentro un ufficio e ha cominciato a picchiarme con tutta la sua forza sul volto e sulla testa e così s’è rotto il dito e quando è ritornato dall’ospedale con l’ingessatura me ha detto che devo ringraziare dio che s’è rotto la mano se non mi avrebbe ammazzato e mi ha dato tanto di calci e mi ha lanciato il secchietto della mondizia in faccia.                                                       Ero fissato con due manette alle sedie fissate nel corridoio fino al tardo pomeriggio da questo maledetto sabato in preda alla fame, la sete e sopratutto alle botte di tutti gli agenti che mi hanno provocato un fischio permanente negli orecchi e mi hanno danneggiato i denti. Sono stato trattato con tanto odio e xenofobia ho pregato ad un agente di spararmi perchè non ce la facevo più dalle botte e l’umiliazione e lui mi ha detto che una pallottola costa 50 cent e non viene sprecata per una merda come me. Quando è avvenuto il fatto c’erano tanti testimoni mentre l’agente mi strangolava ed io ho chiesto aiuto alla gente, pregandolo di lascirmi respirare ma lui non ha più lasciato la presa e quando una donna è intervenuta pregandolo di lasciare respirare e che mi stava facendo male, lui ha minacciato questa donna dicendo “fai i cazzi tuoi”. Poi è intervenuta la sua compagna e lui ha detto davanti a tutti che avrà a che fare con lei quando saranno a casa. Sono sicuro che c’è qualcuno che vuole essere con la coscienza a posto e dirà la verità. E potete verificare la mia sincerità.                                                                        Dovete capire che l’agente non può dire al Tribunale che mentre mi picchiava s’è rotto il dito, perchè lui vuole fare la figura della vittima e del eroe. Ha reagito con malanime e abusato del potere, perchè il suo compito e produrre e non c’è una occasione più adatta da un extracomunitario malcaapitato come il sottoscritto.                                            Anche io in quel tardo pomeriggio mi hanno portato al Pronto Soccorso dove mi hanno fatto le lastri e mi hanno detto che non c’erano il dentista e l’oculista. E tutti i documenti sono rimasti colli agenti compresi i miei documenti io voglio solo giustizia e voglio anche io abbracciare il mio bambino che mi manca da morire. Ho ditto tutta la verità ed a voi sostinitori della dignità umana di giudicare e di rendere felice una famiglia disunita da quel fatto atroce. Ho sempre fiducia nella giustizia e nella coscienza vostra.   Grazie con gratitudine Chebbi Noureddine Ben Othman nato in Tunusia il 1.02.1963 laureato in storia all’università di Damasco – Syria. In posseso di permesso di soggiorno dalla prima sanatoria della Legge Martelli.

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Novembre 2008  –  Benevento

Cari signori innanzitutto vi saluto e vi auguro un buon lavoro e voglio rengraziarvi  a quelli regali che mi avete mandato, mille grazie. Voglio informarvi del mio trasferimento dal carcere di Parma al carcere di Benevento il 18.01.2008, all’inizio ero molto contento del mio trasferimento, per e purtroppo questa felicetà non ha durato tanto, perché dopo il mio arrivo al carcere di Benevento sono stato sorpreso da questo carcere. Un carcere che hanno ristrutturato, una struttura solo per i musulmani che sono accusati di terrorismo! Un carcere con il regime di 41-bis, no è peggio del 41-bis, questo carcere è guantanamo con tutti e fatti, l’unica defferenza tra questo carcere e guantanamo e quella divisa arancione, noi siamo trattati come prigionieri di guerra, quando siamo arrivati a questo carcere non abbiamo trovato i nostri diritti come detenuti, e non parliamo del trattamento e li perquisizione e la vigilanza. Non possiamo fare niente senza perquisizione e vigilanza. L’unica cosa che possiamo farla senza perquisizione e senza permesso è “respiro”. Questo un centro di tortura, psicologica, non ti toccano con un dito però ti distruggono mentalmente, moralmente, spiritualmente, l’unica cosa che ti viene in mente è di suicidare, meglio di questa vita senza diritti e senza dignità, io sono stato nel 41-bis e nel EIV per non mai visto un regime di detenzione simile a questo.                                                                                                                                            E non dimentico le finestre che sono chiuse con una piastra che impedisce l’aria e la luce del sole, siamo dentro una scatola chiusa. L’unica apertura che potrà fare entrare l’aria è la porta principale! Del piano terra!                                                                                      In poche parole non c’è un’apertura che può fare entrare l’aria e senza dimenticare che ci sono detenuti malati dell’asma o una malattia del genere e ci sono fumatori dentro questa struttura chiusa sia detenuti o guardie, cosa fanno questi malati. E che se ne frega il Ministero di quelli.                                                                                                   Sapete una cosa in Italia basta solo l’accusa per rovinare la gente e per i musulmani l’accusa non manca, in questo carcere abbiamo trovato la legge ma non abbiamo trovato i diritti.                                                                                                                                                In questa struttura siamo 9 persone, 5 algerini 2 iracheni e un egiziano tutti accusati di terrorismo! E questa la nostra sezione, e abbiamo sentito che stanno per portare altri musulmani e questa è la situazione in generale senza dettaglio, perché non voglio stufarvi con questi dettagli. E perché sono una vergogna per questo stato. E specificamente una vergogna per Ministero della giustizia noi siamo in malissime condizione in questo carcere e stiamo organizzando una protesta  “sciopero della fame” contro questo provvedimento del Ministero.                                                                          Cari signori prima di salutarvi voglio ringraziarvi di nuovo grazie mille e vi auguro per voi un buon lavoro e vi porgo di accettare miei distinti saluti

Khaled Husseini

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1971 – Dopo la rivolta nel carcere di San Vittore Milano

… Giunti a Genova fummo calati nella stiva di una nave, dove tutto  era  buio  e sporco,  costretti  a  mangiare ammanettati  e dormire con le manette, per terra, come bestie. Rimanemmo così per dodici ore. Sbarcati a Cagliari verso le tre e mezzo, fummo  accompagnati  a Mamone. Qui trovammo schierati tutti i secondini, il direttore e il maresciallo il quale ci fece un piccolo discorsetto la cui sintesi  era:  “voi siete  dei  ribelli,  toglietevi i  grilli  dalla testa,  noi  abbiamo domato bestie  più  feroci  di  voi,  state attenti  che la  Sardegna  lascia  brutti  segni”.  Finito  il discorsetto, fummo  tutti  ammucchiati in una stanza, fummo denudati,  eravamo  senza  mutande,  nonostante  facesse  un freddo della  malora.  Fummo perquisiti  minuziosamente, accuratamente, ci fecero piegare a novanta gradi in avanti, le guardie  scostarono  le chiappe  del  culo  e controllarono  il buco.  I  secondini  avevano nei  nostri  riguardi  un comportamento duro,  arrogante,  derisorio,  quando  li chiamavamo per  qualsiasi  bisogno  facevano  finta  di  non capire rispondendoci in dialetto sardo.                                                                                                                                         La domenica 11 maggio, all’esterno per i civili era festa, il detenuto  M.  si  era affacciato  alla  finestra  per  osservare cosa si svolgeva all’esterno. Sotto la finestra, la sentinella di turno dopo  aver puntato  e armato il mitra disse al M. “scendi  o  ti  faccio venire  il  mal  di testa”.  M. convintissimo  che  scherzasse  disse “spara”,  la  sentinella sparò veramente  una  raffica  di  cinque colpi  di  cui  quattro andarono  a  vuoto  e  uno  andò  a conficcarsi  a  12  centimetri sopra la testa di M.  Giunse il maresciallo che chiese spiegazioni. Un detenuto dello stesso camerone, incazzato per la sparatoria, soprattutto per le conseguenze che poteva avere,  disse al  maresciallo:  “la  guardia che  ha sparato deve essere  pazza e  se  la  prendo  lo  strozzo”.  Il maresciallo  con  il  sorriso  sulle  labbra  disse:  “state calmi, ragazzi, non è successo nulla di grave”. Dopo circa un quarto d’ora, mentre eravamo ognuno nella propria branda a mangiare,  fecero  irruzione  il  maresciallo  con un seguito di una  trentina  di  guardie,  in vero  e  proprio  assetto di  guerra: muniti di bombe lacrimogene, elmetto e sacchetti di sabbia, si avventarono  cinque-sei  guardie contro ognuno di  noi,  e ci condussero  a calci,  pugni  e  sacchettate  sino  alla  portineria della centrale  di  Mamone,  dove  numerose altre  guardie ci attendevano  e ci  ammanettarono  stringendo  i  morsetti  dei ferri,  a tale punto  che il sangue non riusciva ad affluire alle dita. Lì  c’erano  il  direttore  del  carcere,  il  cappellano del carcere,  ai  quali  noi  chiedemmo quale era il motivo di  quel trattamento,  ma ambedue  non  si  degnarono nemmeno di rispondere.  Ci  fecero  attraversare  il  piazzale,  sempre percuotendoci fummo obbligati a salire su un autobus; mentre ci accingevamo a salire,  M. venne colpito alla nuca da uno  sbirro  e crollò  svenuto  ai  piedi  del  cappellano,  che impassibile  davanti  all’accaduto, si  allontanò; io  e  un  altro amico,  benché ammanettati  e  minacciati  e  impediti  di soccorrerlo, ci chinammo ed aiutammo nei limiti delle nostre possibilità  […].                             L’autobus  prese  la  direzione  di  Nortiddi  (una  diramazione della colonia  sita a  4  chilometri  dalla centrale  in un posto solitario e deserto) dove ci sono le sei celle di punizione. Ci fecero  scendere  uno  alla  volta, si scagliarono  addosso  e ci trascinarono a pugni, calci, e sacchettate, verso l’entrata dello stabile (un vero inferno). Io vidi tutta la scena dal finestrino dell’autobus,  e  quando il  primo detenuto sparì  nel  corridoio dello  stabile,  sentii  delle  urla  strazianti  e  terribili,  nonché lamenti di dolore. Io fui l’ultimo a scendere ed avendo visto il trattamento  subito dai  miei  compagni,  pensai  di  fingere  di stare male  onde evitare  nuove  percosse, ma ciò non servì  a nulla,  perché  non  appena  giunsi  sulla  porta  dell’autobus, venni  colpito  alla nuca dai due pugni  chiusi; il  colpo subito mi  fece cadere  faccia al suolo.  Mi  coprivo  come  potevo  il viso onde evitare  le  scarpate alla  testa,  ma  fui  colpito ugualmente e ripetutamente da scarpate e sacchettate in tutto il corpo e in particolar modo alle costole. Ancora oggi risento le conseguenze di questi colpi. Mi rialzai dolorante e stordito venni trascinato  e  trattato  come  gli  altri  detenuti.  Sembrava una  via crucis, finalmente  giunsi  alla cella,  voglio precisare che  mentre eravamo  massacrati,  gli  sbirri  ridevano  e canticchiavano per  deriderci.  Davanti  alle celle  mi  fecero spogliare completamente,  mi  ordinarono di  piegarmi  a novanta  gradi  ed  io  compresi la  loro  intenzione,  in quel momento essendo privo delle manette mi coprii i testicoli con le  mani,  ma  mi  ordinarono di  non  assumere  tale atteggiamento,  e  non  appena  tolsi le  mani  una  guardia pugliese mi sferrò una scarpata, e svenni. Mi ritrovai in cella assieme a due altri miei compagni di sventura. Confesso che eravamo tutti conciati in stato pietoso. Dopo mezz’ora passò il maresciallo,  il  direttore,  il  dottore,  quest’ultimo  invece  di assisterci  ci  disse “qui  potete  urlare  fin  che  volete  tanto  il paese più vicino dista20 chilometri”. Specifico  che  nelle celle  di  punizione  dormivamo  in  tre sui  paglioni  per  terra, senza  lenzuola e  una sola coperta sudicia e  puzzolente;  alla mattina a  discrezione  delle  guardie ci  concedevano  al massimo dieci minuti d’aria. Paglione e coperta ci venivano tolti  alle sei  del  mattino  e  riconsegnati  alle sette  di sera. Il vitto  era  dimezzato  e  guai se ci  azzardavamo  a chiedere  un mescolo di sbobba in più, la risposta che ci veniva data era “non siamo all’albergo ma alle celle di punizione”.                                                                                                                                                         Tre giorni alla settimana il vitto consisteva in 200 grammi di  pane e acqua.  Fumo  e  qualsiasi lettura erano proibiti. Preciso anche che per sfregio ci rapavano i capelli a zero. A mezzanotte  portarono nella cella  un  altro mio  compagno,  il quale piangeva e aveva numerosi lividi sul viso e sul corpo. Costui ci raccontò che a metà strada tra Mamone e Nortiddi le guardie  si  fermarono  in  aperta campagna e  ordinarono di baciare  i  gradi  del  maresciallo.  Lui  si  rifiutò  e  venne malmenato.  Io per  protesta agli  abusi  subiti  senza  motivo, rifiutai il cibo per due giorni, venne il dottore che mi chiese la ragione dello sciopero della fame, gli spiegai, e ordinò in mia presenza al capoposto che sotto la sua responsabilità non mi dovevano dare da mangiare per cinque giorni. Dopo qualche giorno  sentii  nella cella a  fianco della  mia,  che  un  mio compagno  si  era  tagliato  e aveva  ingerito una  scheggia  di vetro,  gridava  di  voler  essere  visitato,  ma  il  brigadiere e  le guardie dissero: “sei un bastardo, e anche se crepi non ce ne frega  niente”.  Il  dottore  venne a  visitarlo dopo dieci  giorni dopo l’accaduto, e per cura ordinò quindici giorni a dieta di riso  e  una  patata  suddivisa  in quindici  giorni.  In queste condizioni trascorremmo  trentadue  lunghi  giorni,  che ci distrussero  moralmente e  fisicamente,  finché  una  sera ci chiamò il direttore dicendoci che ci sospendeva i restanti due mesi  di  punizione.  Fummo  ricondotti  a  Mamone  in condizioni estremamente pietose, tanto che i nostri compagni non  ci riconoscevano. Anche al carcere centrale di Mamone le  nostre  pene  non  finirono,  segnavamo visita  medica e  il medico  ci  prendeva  in giro.  Cito vari  esempi:  un nostro compagno di  nazionalità austriaca,  che  durante  la rivolta  di San  Vittore  ricevette  un  colpo di sbarra sul  bicipite  destro, accusava ancora  forti  dolori,  andò dal  medico  che  gli prescrisse  sale amaro.  Un  altro detenuto,  che  durante  la rivolta  di  San Vittore  prese  un  calcio nei testicoli,  andò dal dottore e  per  cura  gli  prescrisse  quindici  giorni  di  cella  di punizione dicendo che aveva richiesto la visita medica senza reale bisogno e necessità.                                                                                                                                                                                                 Casi  simili  ne accaddero  molti.  Cercammo di  denunciare all’esterno  tutti  gli  abusi  che  subimmo  ma  fu  impossibile.                                                                                                                                                                 Finché  M.   fu  liberato, si  recò  alla  procura ed  espose denuncia  sulle  varie  sevizie  subite.  Voglio precisare che quando mancavano cinque giorni alla liberazione di M., il  direttore  gli  disse:  “ti  concedo di  poter  girare liberamente  per  i  prati  della colonia affinché  tu possa riprendere un buon colorito respirando aria buona”. M. rifiutò. Il  nostro pellegrinaggio  si  concluse  dopo  sei  mesi  col ritorno  a  San  Vittore,  dove fummo di  nuovo rinchiusi  nelle celle  di  rigore.

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