Inizia il 1973, un anno carico di tensione. La crisi bussa pesantemente alle porte. Il sistema capitalista paga il prezzo dell’abnorme espansione del modello consumistico. È dunque crisi di sovrapproduzione cui si affianca la cosiddetta “crisi petrolifera”: aumentano i costi della rapina delle fonti energetiche. I padroni vogliono arrestare l’offensiva operaia e recuperare margini di profitto facendo pagare il costo della crisi ai lavoratori. Gli strumenti recessione e repressione. Una lunga recessione! Quindi chiusura delle fabbriche, aumento della disoccupazione, con conseguente difficoltà di scioperare. O meglio difficoltà di mantenere l’offensiva costretti a lotte difensive per mantenere il posto di lavoro a qualunque condizione.
Una campagna mediatica mai vista cerca di convincere i proletari che “fare sacrifici è bello”. È un battage pubblicitario di enorme ampiezza con l’appoggio di sindacati confederali e Pci. Iniziano le chiusure di fabbriche. Cominciano i licenziamenti nel settore degli elettrodomestici Candy, Triplex, Rex, ecc.. La Pirelli, mette in cassa integrazione 2.600 operai.
I settori più avanzati della classe operaia cercano di mantenere l’offensiva e continuare l’onda lunga della riscossa operaia. La piattaforma operaia rilancia questi obiettivi:
–Salario Minimo Garantito di 150.000 lire al mese
-36 ore alla settimana
-Abolizione degli straordinari
-riduzione delle categorie (al massimo due)
-25.000 lire di aumento uguali per tutti.
I volantini, gli striscioni dei cortei e le scritte sui muri un unico grido: “La crisi la paghino i padroni”.
Il quadro politico
Il governo ce la mette tutta per dare una mano ai padroni. È la volta del governo Andreotti-II (dal 26 giugno 1972 al 5 luglio 1973) noto come Andreotti-Malagodi, con maggioranza Dc, Psdi, Pli (centrista) e con: Tanassi (vice e difesa), Malagodi (Tesoro), Gava (riforma P.A.), Taviani (Mezzogiorno), Rumor (interni), Scalfaro (Pubbl Istr), Medici (Esteri), Gonella (Giustizia).
Gli succede il governo Rumor-IV (dal 6 luglio 1973 al 13 marzo 1974) maggioranza: Dc, Psi, Psdi, Pri (centro-sinistra). Con: Donat Cattin (Mezzogiorno), Gava (Riforma P.A.), Moro (esteri), Taviani (interno), Zagari (giustizia), Giolitti (programmaz Econ), La Malfa (Tesoro), Tanassi (Difesa), Malfatti (Pubbl. Istr.), De Mita (Indus. Comm.).
La cronaca dei primi mesi del 1973
22 gennaio. Adele Cambria, responsabile “pro tempore” del quotidiano Lotta continua, è condannata a 7 mesi coi benefici di legge in relazione ad un articolo che definiva il procuratore Sossi “famigerato” e “fascista”.
23 gennaio. Richard Nixon annuncia che, a Parigi, Kissinger e Le Duc Tho hanno firmato un accordo per il ‘cessate il fuoco’ in Vietnam, con decorrenza dal 28 gennaio.
25 gennaio. Il Senato approva il disegno di legge che aumenta di 5.000 unità l’organico della polizia.
23 gennaio. Si svolge la giornata di lotta nazionale dei metalmeccanici contro la ristrutturazione e la repressione, con assemblee e cortei.
23 gennaio. A Milano, in serata, 100 poliziotti agli ordini del vice questore Paolella e Cardile e del tenente Vincenzo Addante circondano la Bocconi per bloccare una manifestazione di studenti del movimento, indetta per protestare contro i provvedimenti repressivi della libertà di riunione. Un agente di Ps apre il fuoco contro i manifestanti in fuga colpendo lo studente Roberto Franceschi, che è ricoverato in ospedale in fin di vita. Rimane ferito anche l’operaio Roberto Piacentini, al quale una pallottola sfiora un polmone. Il giorno successivo, in gravissime condizioni, il Piacentini sarà incriminato per ben 5 reati. Si verifica nei giorni successivi un rimbalzo di responsabilità per l’intervento della polizia fra il rettore Giordano Dell’Amore e la Questura, che avanza la versione dell’agente in preda a raptus.
26 gennaio. A Milano, emergono testimonianze sui fatti della Bocconi. Quella di un avvocato, Marcello Della Valle, e di Italo Di Silvio, che dalla finestre delle loro abitazioni hanno visto un agente in borghese sparare ad altezza d’uomo, e un funzionario di polizia dare ordini palesemente in tal senso.
25 gennaio A Ponte San Pietro (Bergamo), la polizia interviene sparando in aria poi, secondo gli operai, anche ad altezza d’uomo davanti alla Philco, e nel pomeriggio contro un gruppo di giovani di sinistra.
26 gennaio A Pomigliano (Napoli), l’Alfasud sospende 3.500 operai dopo uno sciopero di reparto.
27 gennaio A Milano, numerosi feriti e contusi sono il bilancio di un’aggressione perpetrata da fascisti contro i dipendenti della Standa in sciopero.
28 gennaio A Torino, al termine di una manifestazione per Franceschi, gruppi di militanti di Lotta continua assediano la sede del Msi, e 2 di essi rimangono feriti dai colpi di arma da fuoco esplosi da agenti di Ps intervenuti. Sono tratti in arresto Alberto Callo, Marco Natale, Mauro Perino, Guido Viale.
29 gennaio A Torino, guardie private della Fiat aggrediscono e malmenano 2 delegati che guidavano un piccolo corteo interno. Gli operai rispondono con una giornata di lotta contro la repressione e i metodi squadristi della direzione.
30 gennaio A Milano muore, per le ferite riportate il 23 precedente, Roberto Franceschi. Sono incriminati per omicidio preterintenzionale gli agenti di Ps Gianni Gallo e Agatino Puglisi.
20 gennaio A Conakry, sicari portoghesi uccidono Amilcare Cabral, segretario del Partito africano per l’indipendenza della Guinea. (Paigc) Nel suo testamento, il leader africano ha ribadito che entro l’anno la Guinea Bissau terrà, in zona controllata dal Paigc, la sua prima riunione per proclamare l’indipendenza, promulgare la costituzione e creare gli organismi sovrani. Il PAIGC era stato fondato da Amílcar Lopes da Costa Cabral (Bafatá, 12 settembre 1924 Conakry, 20 gennaio 1973) nel 1956 insieme a Luís Cabral, Aristides Pereira, Abílio Duarte , inizialmente clandestina, che si batte contro l’esercito portoghese su parecchi fronti partendo dai paesi vicini, specialmente dalla Guinea e dal Casamance, provincia del Senegal. Riesce un po’ per volta a controllare il sud del paese e a mettere in atto delle nuove strutture politico-amministrative nelle zone liberate. Il PAIGC organizzò mercati itineranti sul territorio in cui era possibile trovare beni di prima necessità a prezzi decisamente inferiori rispetto a quelli che offrivano i negozi gestiti dai portoghesi e ad ospedali improvvisati in cui distribuire i medicinali che venivano inviati dall’URSS e dalla Svezia per sostenere la lotta guineense. In questi anni Amilcar Cabral approfondisce la riflessione sui metodi rivoluzionari e consolida la propria formazione marxista-leninista;
5 febbraio A Torino, si conclude il processo a 19 operai della Fiat per gli scioperi e manifestazioni del 1969, con la condanna a 2 mesi con la condizionale per Giovanni Panosetti ed Ennio Furchi, e 17 assoluzioni. La Fiat licenzia altri 3 lavoratori.
7 febbraio A Trento, al processo contro 4 lavoratori incriminati per un picchettaggio alla Ignis del marzo 1971, un teste d’accusa ritratta la sua precedente dichiarazione, affermando di non conoscere gli imputati e che fu la direzione a segnalarglieli.
9 febbraio Il sostituto procuratore milanese Viola ordina il sequestro del manifesto che pubblicizza lo spettacolo di Dario Fo “Pum, pum, chi è? La polizia“, da 2 giorni in scena in città, per ‘vilipendio alle forze armate’.
12 febbraio Il Tribunale di Roma condanna la direttrice responsabile del “Manifesto” Luciana Castellina in relazione ad un articolo su interventi della polizia, per ‘notizie false e tendenziose’.
14 febbraio Ad Atene, si verificano violenti scontri fra polizia e studenti, che chiedono libertà di espressione, con numerosi feriti e 11 arresti.
20 febbraio A Milano, la Breda termomeccanica sospende 39 operai per scioperi articolati (gatto selvaggio).
25 febbraio A Pontedera (Pisa), 23 consiglieri comunali oltre al sindaco e al vice sindaco sono stati denunciati per ‘peculato’ per aver deciso il versamento di 300.000 lire ai lavoratori della fonderia, come forma di sostegno per gli scioperi intrapresi.
28 febbraio A Roma, si apre il processo a carico di Umberto Terracini per ‘vilipendio alle forze armate’, in relazione ad un articolo pubblicato da “Rinascita” sulle responsabilità di polizia e carcerieri nella morte di Franco Serantini.
L’occupazione di Mirafiori del 29 marzo ’73: i «fazzoletti rossi»
Di fronte all’attacco padronale e statale, di fronte alla crisi che comincia a scomporre il tessuto proletario e rende più difficile la lotta, alcune componenti del movimento arretravano. Altre rilanciavano e il dibattito si riempiva di grandi interrogativi; a quel punto gli operai di Mirafiori sparigliarono i giochi.
In Fiat prese corpo una nuova «milizia operaia» con il fazzoletto rosso sul viso che affermò e consolidò una forma di lotta, il corteo interno, con «spazzolate» che arrivarono a trascinare via anche impiegati e dirigenti. Una ripresa operaia nel pieno della controffensiva padronale e statale nell’anno del golpe in Cile (vedi qui ), nell’anno in cui il Pci lanciava il compromesso storico, nell’anno il cui il governo preparava un duro attacco antioperaio e antiproletario. In quel contesto, i «fazzoletti rossi» lanciarono a tutto il movimento un appello: la battaglia rivendicativa, per quanto avanzata, trovava un limite davanti a sé. Questo limite era stato raggiunto. Gli operai non dovevano più vendersi meglio come forza lavoro ma aggredire l’ordine sociale complessivo. Era questo il senso delle bandiere rosse messe sui cancelli. Come a dire: qui abbiamo fatto tutto, ma oltre cosa c’è?, lo Stato.
In marzo […] quotidianamente i cortei interni spazzolavano le officine ma il 27 circolò la voce di un accordo inadeguato […] la mattina del 29 i gruppi rivoluzionari, Lotta continua e Potere operaio, si presentano alle porte con dei volantini che rilanciavano lo sciopero a oltranza. Ma quando gli operai entrarono, quella mattina, il clima era più pesante del previsto. Poco dopo l’entrata del turno cominciarono ad arrivare fuori le notizie sul fatto che dentro si stava decidendo l’occupazione. Più tardi, mentre «La Stampa» annunciava che era stato fatto l’accordo, gli operai venivano fuori a piantare le bandiere rosse sui cancelli.
[Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro…, cit.].
Facciamo un passo indietro: dal rinnovo contrattuale dell’autunno-inverno 1972-73.
Autunno 1972, contratti dei metalmeccanici. La Federmeccanica, con l’appoggio del governo Andreotti, punta sulla regolamentazione del diritto di sciopero, piena utilizzazione degli impianti e controllo fiscale dell’assenteismo. Alla Fiat, un corteo interno di impiegati si unisce a quello degli operai, scatta la rappresaglia: cinque lettere di licenziamento a operai e impiegati individuati grazie alla rete spionistica interna. Il 17 novembre 1973 il vicecomandante dei guardioni si scaglia con l’automobile contro un picchetto: la polizia arresta due operai colpevoli di aver accennato una reazione. Altri quattro compagni ricevono lettere di licenziamento. Il 25 novembre, la sinistra extraparlamentare organizza una manifestazione a Torino, «contro le 600 denunce, contro il governo Andreotti, contro il fascismo». Polizia e carabinieri la reprimono violentemente. 26 novembre, le Br incendiano quasi contemporaneamente nove automobili di altrettanti fascisti scelti tra quelli che operavano in fabbrica al servizio dei guardioni di Agnelli. Tre giorni dopo gli incendi, nel corso di uno sciopero, un corteo interno di 4000 lavoratori percorre con le bandiere rosse tutti i reparti spazzando crumiri e fascisti. Il capofficina del montaggio, considerato responsabile di un licenziamento, viene scacciato dalla fabbrica, insieme a un altro capetto, con al collo una bandiera rossa. Col passare dei giorni i cortei interni, divenuti oramai una pratica usuale, cominciano a porsi come momento di potere proletario in fabbrica. Il 9 dicembre 1972 la questura di Torino presenta decine di denunce contro 800 lavoratori: molti sono operai accusati di «sequestro di persona con l’aggravante di aver compiuto il reato in più di cinque». Agnelli licenzia cinque compagni. Fiat e Flm firmano un comunicato congiunto, il cosiddetto «verbale di intesa», presto ribattezzato dagli operai «verbale di resa»: «Le parti si sono date atto di reciproca volontà di evitare ogni forma di degenerazione della vertenza aperta per il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici, e di non introdurre in un conflitto di questo rilievo elementi di drammatizzazione che farebbero sorgere nuovi ostacoli al raggiungimento d’una intesa […]. L’azione sindacale esclude ogni forma di violenza». Un delegato viene arrestato con l’accusa di aver favorito la fuga di un’operaia rincorsa dai celerini. Il 22 gennaio la direzione invia cinque preavvisi di licenziamento. Lo stesso giorno, alla Lancia, i celerini sfondano i picchetti sparando sugli operai: quattro feriti. Come rappresaglia a uno sciopero di 185.000 lavoratori, la Fiat il 2 febbraio 1973 sospende 5000 operai. La risposta è un corteo interno di 20.000 operai che a Mirafiori spazza crumiri e fascisti. Fioccano i licenziamenti con le motivazioni più banali e provocatorie del tipo, per esempio, per aver disturbato il lavoro. Il 9 febbraio a Roma la più grande manifestazione operaia dà la misura della contraddizione tra la combattività delle masse e l’incapacità della direzione sindacale. Non si è ancora spenta l’eco della manifestazione di Roma, che a Torino il 12 febbraio 1973 alle ore 9,30 un nucleo delle Br sequestra Bruno Labate, segretario provinciale della Cisnal.
Il fascista messo alle strette rivelò alcune connessioni politiche tra la Cisnal e la direzione Fiat e tra questa e diverse agenzie private di investigazione. Sulla scorta di tali indicazioni fu agevole, sia all’avanguardia di fabbrica, sia ai collegamenti territoriali, riattivare politicamente – in funzione della lotta – il discorso sullo spionaggio Fiat. A due anni di distanza lo spettro delle schedature, della sorveglianza, della selezione, si reincarnava ufficialmente nella ignobile proliferazione di centrali fasciste, di assunzione e di controllo, protette e nutrite da notabili Fiat, devoti agli Agnelli. Dunque molte anime, forse, ma un solo corpo sempre teso alla prevenzione terroristica e alla rappresaglia esemplare.
Da «Il Giornale dei capi» edito dalla Fiat, con diffusione interna per i soli capi, n. 2, febbraio 1973:
Si fornisce un bilancio globale delle gravi conseguenze che le violenze hanno avuto: – feriti e contusi un centinaio […] – le macchine dei dipendenti danneggiate in novembre, dicembre e gennaio sono state 800 – danni alle strutture delle officine e degli uffici (cancelli di separazione […], porte sfondate, arredi di ufficio danneggiati, incendio di un ufficio sindacale…) […]. Chi compie questi atti tenta di sfuggire all’individuazione, e il più delle volte ci riesce nascondendosi nella massa: i bulloni lanciati dai cortei, le aggressioni collettive a persone e a cose offrono possibilità di impunità quasi certa.
Dai «fazzoletti rossi» la lezione venne lanciata a tutto il movimento. Quale insegnamento trarne? Gli operai Fiat occupavano la cattedrale del capitalismo, scavalcando persino le indicazioni dei gruppi rivoluzionari, ponevano con chiarezza il problema del potere. Ma il movimento nelle sue varie articolazioni non era pronto.
Potere Operaio decise di sciogliersi per passare a nuove e diverse forme organizzate. Anche all’interno di Lotta Continua iniziò una disgregazione che portò alla sua fine nel ’76. Si sciolse anche il Gruppo Gramsci, presente soprattutto a Milano.
«In quei mesi (’72-73) eravamo su un crinale, a un passo dal finire di qua o di là, e ci siamo rimasti per un anno e mezzo. Poi abbiamo fatto la scelta giusta, ma potevamo anche fare l’altra, quella della lotta armata».
[Lanfranco Bolis, dirigente di Lotta continua, in: Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978. Storia critica di Lotta continua, 2006].
Il giornale «Potere operaio» comunica lo scioglimento del gruppo:
«Il 29- marzo a Mirafiori, Rivalta, in tutte le sezioni Fiat lo sciopero a oltranza si trasforma in occupazione armata. È in questa forma che agli operai si rivela l’effettualità di un esercizio diretto del potere contro l’insieme delle condizioni repressive messe in atto da padroni e sindacati dal settembre ’69 a oggi. Il partito di Mirafiori si forma per mostrare l’impossibilità capitalistica di uso degli strumenti di repressione e di ristrutturazione».[Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro…, cit.].
«La consapevolezza che l’insurrezione non è «arte» ma «scienza», capacità di articolare minutamente l’intero cammino della sovversione in movimenti di massa e in operazioni di avanguardia […]. La terza fase del processo organizzativo di classe operaia si apre a Mirafiori, nel marzo 1973. La direzione è tutta dentro l’autonomia di classe, l’articolazione dell’attacco è anche la sua funzione unificante, le nervature di un modello organizzativo adeguato cominciano a vedersi». (Toni Negri, in: Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro…, op. cit., p. 442).
«Dopo cinque mesi di lotta per il rinnovo del contratto, e quasi duecento ore di sciopero, giovedì 29 marzo 1973 alla Fiat Mirafiori di Torino il primo turno aderiva alla nuova astensione dal lavoro proclamata dai sindacati. Circa 10.000 operai formavano un corteo interno, poi si dividevano in diversi gruppi che bloccavano i 12 cancelli d’ingresso nello stabilimento esponendo bandiere rosse, striscioni, cartelli. Aveva inizio l’occupazione di Mirafiori che, all’epoca, raccoglieva tutti i giorni circa 60.000 dipendenti, una vera e propria città nella città, con enormi officine e chilometri di recinzione. Il blocco della produzione e i picchetti ai cancelli continuavano venerdì 30 marzo e proseguiva lunedì primo aprile. La lotta si estendeva ad altri stabilimenti cittadini e nella provincia. Il protagonismo di massa e l’organizzazione basata sui delegati eletti dagli operai nei reparti erano il nerbo e la direzione del movimento. Diego Novelli su «L’Unità» del 3 aprile riferiva dell’alto grado di maturità e intelligenza raggiunto dal movimento, della forza dei nuovi strumenti rappresentativi di base (delegati e consigli) che consentiva una rapida crescita del livello politico. Nella tarda serata di lunedì la Flm e la Federmeccanica raggiungevano un accordo i cui punti salienti erano: abolizione delle categorie e delle qualifiche mediante l’inquadramento unico; aumento salariale di 16.000 lire al mese uguale per tutti; riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 39 ore mediante la concessione di una giornata di riposo ogni otto settimane lavorative; una settimana in più di ferie; riconoscimento del diritto allo studio mediante l’ottenimento delle 150 ore retribuite».
[Diego Giachetti, L’occupazioni di Mirafiori, in: «Carta», 22 maggio 2003].
Dopo l’occupazione di Mirafiori la classe operaia italiana ottenne l’accordo più alto della sua storia. Per la prima volta, in ambito capitalistico, si abolivano le categorie a solo due e si scendeva sotto le 40 ore settimanali. Questo risultato trascinò l’accordo del ’75 sul «punto unico di contingenza» e l’ampliamento della gamma degli automatismi salariali (passaggi automatici di categoria ecc.). L’accordo sul punto unico di contingenza produsse effetti a cascata: da un lato fu un potente fattore di restringimento del ventaglio retributivo, dall’altro finì per assorbire quasi per intero la dinamica salariale.
I padroni avevano aperto la borsa oltre le previsioni. Quello era l’unico modo, per i padroni, di cercare di tenere nell’ambito della dinamica sindacale uno scontro di classe che si andava caratterizzando come scontro complessivo di potere. Avevano visto giusto i «fazzoletti rossi» non accettando quell’accordo. Il problema non era più in fabbrica, non era più nel salario. Sganciare i soldi, per i padroni è possibile, possono recuperarli tempo dopo, ma perdere il potere è una strada senza ritorno.
Ma per quel livello di scontro di classe il movimento non era adeguato, non era pronto, eravamo tutti in ritardo. Lo scontro si frantumò. Ci voleva una idea-forza, una prospettiva concreta e unificante per ricomporre il tessuto di classe che si andava sgretolando. Chi doveva lanciare questa prospettiva?
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Salvatore, Valentina, leggo, rileggo i vostri blog sulla tortura, sulle lotte degli ultimi 40-50 anni, le lotte dei lavoratori del Sulcis, penso a cosa andrai a dire in Sardegna, a riflettere sui nostri “errori”, ai metodi di lotta intrapresi, alla nostra pazienza nel contestare con le buone ed anche con le “cattive”, a quanto siamo stati osteggiati da sindacati e partiti che ci hanno trattati da provocatori, da fascisti, da pagati dai padroni…mi rivedo a Coviolo con i capelli bianchi e lasciatemelo dire, tutto sommato avviliti, stanchi, delusi, impotenti di fronte alla indifferenza, insensibilità, arroganza, soddisfazione nel vederci vecchi e vinti. Le abbiamo provate tutte le strade del riscatto ed oggi non saprei proprio più cosa proporre se non di rimboccarsi le maniche e riprendere questo lavoro di sisifo di controinformazione, di fiancheggiamento di questo amatissimo “proletariato in cenci”. Scusatemi lo sconforto ma è un periodo disastroso per quelli come noi che ci credevano e ci credono ancora. A pugno chiuso.Gianni
Carissimo Gianni, capisco il tuo sconforto che è anche il mio e sono le nostre difficoltà nel costruire una reale opposizione autorganizzata e forte a questo regime dello sfruttamento capitalista. I percorsi della trasformazione sociale, della rivoluzione, sono lunghi e forse non corrispondono ai nostri tempi di esistenza. Oggi, come vedi, ci troviamo su queste “finzioni” digitali mentre le STRADE SONO VUOTE, oppure riempite da chiacchieroni.
Bisogna continuare, continuare a seminare, bisogna intensificare la nostra attività nella vita reale, nella convinzione che si proveranno altre strade, si subiranno altre sconfitte, ma nulla andrà perduto, tutto servirà, quando “gliultimi del mondo” si solleveranno in piedi!
Un abbraccio a pugno chiuso.
Forse peccherò di superficialità o giovanilismo, ma non sono d’accordo sul cassare il digitale con un unico aggettivo: finzione, altrimenti anche tutta la storiografia pubblicata su questo blog e i nostri commenti e tentativi di discutere per formare un nostro pensiero autonomo, critico e inamovibile, dovrebbero meritare la stessa definizione.
Ieri ascoltavo un cinquantenne intervistato a P.zza S.Giovanni il 22/02 dopo la manifestazione del M5S: senza lavoro, un micro reddito arrangiato da commerciante abusivo, diceva:”dopo Grillo, se non ce la fa, ci saranno i morti in piazza”.
Oggi parlavo con un mio amico di 70 anni, 50 da meccanico, a 12 anni a Roma da solo, per lavorare, dormendo in macchina fino a 18 anni. Incazzato sempre, oggi quasi ironico mi dice:” ho votato sempre PCI e quando Berlinguer era arrivato ad avere il 33% dei voti ho creduto che ce l’avremmo fatta, ma non succedeva! Tutti aspettavamo, ma non succedeva… poi abbiamo capito che si accordava con la DC: quando la sinistra poteva fare non ha fatto, adesso forse qualcosa si muove, speriamo che ‘sto Movimento non si fa comprare”.
Certo sono le parole di chi non legge e non ha mai letto o ragionato secondo la teoria marxista o del determinismo meccanicistico e materialista o delle leggi del capitale: sono le parole di chi a 70 anni ancora lavora, o a 50 ha perso il lavoro e non sa da dove poter ricominciare. Sono le parole raccolte dalla strada, perché le strade non è vero che sono vuote, a meno che non le consideriamo piene e vitali solo quando ci scontriamo con le guardie antisommossa.
I chiacchieroni: l’unico che ha avuto la faccia di presentarsi in piazza durante questa campagna elettorale, altrimenti esclusivamente mediatica, è stato Grillo. Il M5S però è composto da persone comuni che si stanno dando molto da fare, da anni, su temi vari. Molto sensibili alle condizioni ambientali, alla denuncia dello spreco e dei costi della politica e dell’esercito, sostenitori delle energie alternative e del rilancio economico della piccola e media impresa. Poco amplificati invece i temi della condizione degli immigrati in Italia, di quella dei detenuti, dell’emergenza abitativa, del giustizialismo che infierisce sulla microcriminalità e blandisce, quando non affianca, i veri criminali. Però anche qui: perché cassarli con un unico aggettivo: chiacchieroni…..
Caro Pino, non voglio liquidare con “chiacchieroni” Grillo e il M5S, non mi riferivo a loro. Quello è un movimento sociale di protesta da conoscere e capire. Nè voglio ridurre il valore e il significato della comunicazione per mezzo di Internet che, come dici, è senza filtri e diretta. Però c’è da considerare che la gran parte delle comunicazioni che viaggiano attraverso i Social Network sono brevi, schematiche, asseverative. Insomma quel linguaggio deprime la complessità della comunicazione e della discussione, svilisce la ricerca dell’argomentazione dubbiosa, articolata e dialettica, e spesso è ripiegata su considerazioni intimiste e individualiste. Non tutto è così, ci sono molte pagine ricche di documentazione e discussione interessante , ma è il mezzo stesso che favorisce il “non considerare l’altro” per il semplice motivo che non si guarda negli occhi il proprio interlocutore o interlocutrice.
Sarebbe utilissimo, e lo è, quando consente di comunicare, senza filtri, quello che si fa nelle strade, nelle lotte, nella realta pulsante quando mette in comunicazione soggetti attivi impegnati nella trasformazione dell’esistente e della propria vita.
Però non credo possimo immaginare che sostituisca l’odore delle strade polverose o delle foglie bagnate dalla pioggia e calpestate, e nemmeno il puzzo dello scarico delle auto e delle persone che si aggirano bestemmiando… che sono il nostro ambiente reale.
Sono solo alcune considerazioni. E’ una discussione molto complessa e lunga e non voglio certo chiuderla.
E infatti non la chiudiamo….inevitabile che un mezzo così libero e diretto come la rete ospiti di tutto e di più. Inevitabile quindi anche lo sforzo della ricerca di ciò che per ciascuno di noi è più congeniale, per i più disparati motivi personali. Sicuramente non può e non deve sostituire l’interesse e la voglia di sporcarsi le mani con la realtà (perché tale pericolo è insito in uno strumento del genere…) ma tu, per esempio, hai scritto un libro e non credo che tutti i tuoi lettori hanno avuto o avranno il piacere di guardarti negli occhi e viceversa. Eppure il contatto si crea! Non avevo mai letto Engels: ho terminato da poco un suo libro e l ho trovato assolutamente contemporaneo,comprensibilissimo ed entusiasmante, invece ho partecipato a tante assemblee dove ci guardavamo negli occhi e parlavamo in modo contorto, distaccato dalla realtà, arzigogolato, dimostrativo più di un egocentrismo vanitoso che di una reale voglia di discussione, confronto e ricerca di una prassi percorribile. Anzi, a questo aggiungo un’altra cosetta: prendere la parola e sostenere il confronto dialettico non è cosa semplice! Tutti pensiamo eppure non tutti parliamo, soprattutto se ci troviamo in situazioni collettive già strutturate, impostate, quindi poco aperte e molto arroccate….
Cari compagni, riparto da Coviolo per chiarire in parte la ragione del mio sconforto dopo la nostra presenza e partecipazione alla prematura perdita di Prospero: la mia è stata una presenza, una testimonianza solidale al percorso politico di Prospero ed al suo restare a piè fermo nelle nostre aspettative e motivazioni di una vita trascorsa lottando, al di là di certe scelte tattiche e strategiche. Penso che sia molto umano il mio sconforto nel trovarci, al di là di facili trionfalismi apparsi anche su certi blog a noi vicini, o sentire cantare l’Internazionale seguendo le parole su un foglietto perchè la maggior parte non le ricordava o non ne aveva lo spirito adatto a quel triste giorno. Avrei preferito una presenza numerosa, come c’è stata, e l’appello ai compagni ammazzati od assenti per causa di forza maggiore; spesso il silenzio partecipato incute più timore di slogan gridati anche con forza. Superato lo sconforto durato diversi giorni ed avrei fatto bene a tenerlo per me, anche se talora serve sfogarsi ed evitare facili trionfalismi superficiali e riduttivi. Bastava concludere la giornata di Coviolo con le parole conclusive del libro di Salvatore: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.” Aggiungerei, come consiglio a giovani compagni: “Leggiti il libro di Salvatore, segui il suo blog, “controinformati”, approfondisci il pensiero e le esperienze del passato e delle lotte di compagni come Lenin, Louise Michel, Bakunin, la storia della Rivoluzione Russa, della Guerra Civile in Spagna nel 1936 ecc. Compagni che hanno limato il ioro pensiero strada FACENDO, lottando, sperimentando, sbattendo il capo, rompendoselo e ricominciando ogni volta cercando di creare situazioni loro favorevoli: PENSIERO E AZIONE. Riguardo ad Internet, sono d’accordo ancora una volta con Salvatore, nel riconoscere ad Internet una utilità di informazione e collegamento tra le varie realtà a livello internazionale (questo è un grosso vantaggio rispetto al nostro passato remoto) e di formazione di “quadri” preparati (leggasi Blog) e smalizziti sulle varie trappole tese dal Potere e dai loro leccaculo. Fatemi concludere con due frasi da “sportivo” militante: “..la gamba si fa in gara e non in allenamento!!” e “le idee nascono dai fatti e non questi da quelle !!” Non sono frasi mie, ma le ho sempre condivise.Un caloroso abbraccio tutti quelli che “sentono” come noi la vita e gli uomini sempre più sopraffatti. Gianni Landi
Il punto centrale di questa nostra chiaccherata penso si possa concretizzare soltanto con la costruzione di un partito che partendo anche da persone sparpagliate in tutta Italia e che hanno come obbiettivo quello di entrare in parlamento per praticare una sorta di “entrismo” nei centri di potere (già praticato dai troskisti negli anni sessanta nei confronti del PCI), lascino perdere questa strada elettoralistica, per intraprendere, estendere, trasmettere, coordinare e collegare in un unico programma, con vari ed adeguati metodi ed obbiettivi di lotta la lotta rivoluzionaria intesa come capacità e volontà politica di tanta gente ridotta ai limiti della sopravvivenza. Un partito che abbia come obbiettivo l’autoorganizzazione , i metodi di lotta , gli scopi concreti delle lotte e smascherare la finanza internazionale come padrona dei mercati; per fare questo occorrono militanti “sul campo” “( vedi la NO TAV) ,Gruppi di intervento capillare che non lascino soluzione di continuità all’azione politica, un programma pratico che parta dai bisogni della gente con messaggi subito recepibili dalla gente. Non ci scordiamo che Lenin dette l’avvio alla rivoluzione Russa non partendo dai testi di Engels o di Marx, ma dalle parole d’ordine: pane, pace e lavoro..Gianni
è vero le strade sono vuote, purtroppo, maledettamente vuote, desolate, tristi, sono riusciti a congelarli i cervelli, ad estirpare il germe della sana ragione politica di classe dal corpo operaio e sfruttato, giù il capello a questi strateghi del pensiero unico e del migliorismo nazionale, ce l’hanno fatta davvero, le strade vuote rappresentano il coprifuoco (quale rappresentazione migliore del termine stesso) dei pensieri contrari, se prima dava fastidio la manifestazione oggi da fastidio già il pensiero che guida verso il movimentismo. Gianni a volte penso siamo troppo pochi e il tempo stringe, ho però speranza e l’augurio che voglio fare è quello di continuare sulla strada del seminare la verità e coltivare la migliore idea che ci sia, la nostra, e concretamente. Pugni chiusi e bandiere rosse. Che ne pensate di Ross@?
e’ difficile trovare persone competenti su questo argomento, ma sembra che voi sappiate di cosa state parlando! Grazie
è anche raro trovare un blog che fa anche da punto di aggregazione per chi come noi crede nella coscienza di classe e nel riscatto anti-capitalista; grazie a Salvatore e a tutti i compagni.