Le origini delle condanne ai/alle manifestanti di Genova 2001

Le feroci condanne inflitte alle compagne e ai compagni per le manifestazioni di Genova 2001; quelle per gli scontri del 15 ottobre 2011 e per ogni lotta sociale; l’aumento abnorme della carcerazione che ha portato un sovraffollamento record nelle carceri italiane; la diffusione dei Centri di Identificazione ed Espulsione per migranti; l’invasività ed estensione del controllo psichiatrico; la crescente arroganza e impunità delle “forze dell’ordine”, ecc., ecc.,Andiamo alle origini di questa tendenza già in atto:

Da oltre due decenni si assiste a una marcata tendenza alla criminalizzazione del conflitto socio-politico e alla penalizzazione accentuata dei comportamenti sociali ritenuti non compatibili, e dunquepericolosi”.

Nei primi due decenni della storia repubblicana, nonostante l’acuto scontro politico e sociale, forse proprio grazie a quello, negli anni ‘50 e ‘60 le tensioni sociali, le insicurezze, le insoddisfazioni provenienti dal sociale, sono state canalizzate, pur con molte contraddizioni, verso una “domanda di maggiore partecipazione politica” piuttosto che verso richieste di penalità. Non che mancasse la repressione: ricordiamo la celere di Scelba, le cariche, le galere piene e orrende, i pestaggi, però ad interpretare le tensioni provenienti dalla società civile è valso prevalentemente il «vocabolario della politica», piuttosto che un «vocabolario punitivo». L’interpretazione di quel conflitto da parte delle classi dirigenti, come apertura a nuovi soggetti sociali e partitici ha prodotto i tentativi –riusciti- di “inclusione” (o meglio “inglobamento”) nel sistema capitalista dei socialisti prima e del pci poi. È avvenuto nelle amministrazioni locali, nelle commissioni parlamentari, fino alle compagini di governo. Inclusioni che, alla luce dei fatti, non ha portato ad un incremento della linea di “ascolto delle tensioni sociali”, al contrario ha inglobato quel ceto politico (psi, pci, sindacati, associazioni) nel blocco di potere assecondandone la chiusura rendendolo, da allora in poi, sempre più impermeabile alle sollecitazioni provenienti dalla società, dal mondo del lavoro, dalle classi subalterne. (tra i motivi di questa “chiusura” del blocco di potere dominante, c’è da considerare anche gli andamenti del ciclo capitalistico, le ristrutturazioni accelerate dalla competizione internazionale, la modifica del quadro imperialista, ecc.).

Con gli anni ‘70 questa svolta si accentua. La richiesta crescente di miglioramento della classe lavoratrice e, a seguito di questa, di settori del proletariato e di altri strati popolari urbani, si è spinta fino a mettere in discussione i rapporti sociali proprietari (dell’ordine capitalistico). È da questo momento che si assiste ad un cambio di strategia delle classi dirigenti che scelgono la linea dell’annientamento dei movimenti di lotta e di ogni fenomeno sociale.

Dopo la cosiddetta “emergenza terrorismo”, con la quale al conflitto sociale si è risposto in termini esclusivamente repressivi: un’emergenza  che ha stravolto i criteri giuridici della “responsabilità” e azzerato ogni residuo garantismo, le campagne mediatiche hanno costruito un clima di “guerra alla criminalità” permanente che ha sedimentato l’idea che la risposta penale fosse la soluzione di tutti i mali. Le campagne mediatiche hanno costruito un consenso enorme attorno all’attività dei magistrati, ribaltando la storica diffidenza dei cittadini comuni nei confronti delle agenzie penali. Infine, il compimento della deriva “punitiva” della cultura politica italiana si perfezionava con l’avvio della stagione di “tangentopoli”, alla quale ha fatto seguito la scomparsa di un’intera classe politica e la totale delegittimazione dei normali canali della rappresentanza. Si è costruita così l’immagine dei giudici (soprattutto dei pubblici ministeri) quali veri e propri eroi nazionali, cui la gente comune dovrebbe delegare il compito di ricostruire per intero la repubblica italiana, purificandola dai parassiti e dai nemici interni che ne intossicano l’esistenza.

Lentamente il termine garantista è diventato un insulto e chiunque osasse levare una voce di protesta contro il progressivo allargamento dei poteri polizieschi veniva immediatamente accusato di alleanze oggettive con il nemico pubblico di turno, fosse un terrorista, un mafioso, un politico corrotto, ecc.

Tutto ciò ha avuto l’effetto devastante di legittimare anche in Italia una certa cultura di “law and order” che, oltre ad aver ridato linfa all’istituzione penitenziaria, ha radicato ulteriormente una certa cultura ed una prassi giudiziaria inquisitoria ed anti-garantista che ha finito per risolversi a tutto danno delle categorie sociali classicamente più bersagliate dall’intervento penale. È la guerra alle “classi pericolose” ricordiamolo: obiettivo strategico per l’ascesa del fascismo.

Le leggi contro la “grande criminalità” e “la mafia” diventavano gli unici programmi di governo, ma «All’ombra di queste grandi emergenze criminali si è consumato il più spettacolare processo di carcerazione che questo paese ha vissuto negli ultimi cinquanta anni, un processo che si è abbattuto prevalentemente sulle vecchie e nuove aree della marginalità e del disagio sociale, alimentate dagli indirizzi neoliberisti delle politiche economiche dell’ultimo decennio». [S. Verde, Massima sicurezza. Dal carcere speciale allo Stato penale, Odradek Edizioni 2002].

Ecco le cifre della guerra alla criminalità: «per ogni mafioso in più in carcere, cento giovani tossicodipendenti in più cancerizzati; per ogni politico corrotto privato legalmente della libertà, cento immigrati di colore messi in prigione». Poi, il primo usciva e altre centinaia, migliaia di “immigrati irregolari” prendevano il suo posto. Eppure in quegli anni i furti diminuivano, tra il ‘91 ed il ‘99, passano da 1.702.074 unità a 1.480.775; lo stesso gli scippi, che si dimezzano, passando dalle 73.899 denunce del ‘91 alle 33.435 del ‘99. Anche il tasso d’omicidi è in forte calo passando da 1.916 casi del ‘91 a 805 del ‘99 (fonte: ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anni 1991 – 1999)

Per far emergere il senso di insicurezza gli amministratori delle città coniano il concetto di “degrado urbano”, unica categoria per interpretare il disagio economico e sociale degli abitanti delle aree urbane, ignorando  i veri problemi come la vivibilità sociale e la abitabilità dei quartieri, temi mai posti all’ordine del giorno coerentemente in questo paese nemmeno dai partiti di sinistra. Dunque “degrado urbano” e “insicurezza dei cittadini” sono la copia di concetti che improntano le scelte dei governi nazionali e delle amministrazioni locali, con l’accompagnamento di campagne mediatiche dagli anni ’80 fino ad oggi.

I nuovi sociologi riempiono le pagine dei giornali e i talk show televisivi “interpretando” queste “nuove paure” dei cittadini e così le raccontano:

«Il centro cittadino è invaso da barboni che oltre ad infastidire i passanti, danno spettacolo d’indecenza e sporcizia”, “lavavetri insistenti ad ogni incrocio (…), prostitute e magari qualche gay di quelli peggiori”, “tossicodipendenti barcollanti e privi di qualsiasi conoscenza”, “signori ubriachi che con prepotenza pretendono soldi altrimenti ti rovinano la macchina”, “cani liberi che spesso ti aggrediscono e non vengono richiamati dai proprietari”,  “si sente molto la mancanza di un’Autorità (vigili, polizia, carabinieri) che con multe, o con altri strumenti che sono in loro potere, riescano a dissuadere questi individui dal comportarsi in tal modo” .

«La socialità urbana postindustriale sembra ormai ridursi a quella che si realizza nei supermercati, nei centri commerciali, nelle strade fitte di botteghe di ogni genere. La polizia, come in passato non poteva non rispettare il padrone della fabbrica (o il proprietario terriero), oggi deve innanzitutto essere “al servizio” del commerciante e del suo cliente». [S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli 2000]

Contrariamente a quanto si potrebbe ingenuamente pensare, non è stata la destra conservatrice a cavalcare il movimento per la sicurezza: è stata la cosiddetta sinistra di governo, nel timore di perdere terreno rispetto alle destre che si apprestavano a lanciare campagne mediatiche sull’insicurezza. I governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema faranno della sicurezza urbana uno degli obbiettivi principali dell’attività di governo; abbiamo visto persone sconsolate, che si credevano di sinistra, ripetere penosamente la giaculatoria: “la sicurezza non è né di destra né di sinistra”.

Nel 1998 quando era Ministro dell’Interno, l’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano proponeva una “stretta antifughe”, prendendo a pretesto alcuni episodi che destarono scalpore nell’opinione pubblica, proponeva – fra le altre cose – di rendere più stringente il meccanismo delle scarcerazioni per decorrenza dei termini di custodia cautelare, che colpì i “poveri cristi” non certo gli “eccellenti” (La Repubblica, 13.06.1998). Sulle sue tracce il Ministro della giustizia Oliviero Diliberto, proponeva addirittura interventi per metter un freno ai “benefici” della legge Gozzini che, per fortuna, si fermarono sul piano delle “buone” intenzioni. Al ministro Piero Fassino si deve il sostanziale peggioramento del regime della custodia cautelare (con la L. nº 4 del 2001) e la brillante idea di introdurre il braccialetto elettronico, poi crollata miseramente, per i costi elevati e le difficoltà tecniche.

Al potenziamento del controllo del territorio si è accompagnato una esaltazione del ruolo delle forze dell’ordine, con campagne mediatiche talmente potenti da far invidia a quelle per glorificare il ruolo dei marines statunitensi, che continua a produrre una sostanziale impunità per i loro crimini e un’arroganza senza pari(Aldovrandi, Bianzino, Mastrogiovanni, Cucchi, ecc.,  la Diaz di Genova 2001) e un ruolo crescente delle amministrazioni locali sul terreno dell’ordine pubblico che hanno prodotto alcune mostruosità come quella di togliere le panchine dalle piazze delle città, perché possono costituire giaciglio per i vagabondi (un salto indietro di 500 anni).

Ma le radici “forcaiole” di certa sinistra italiana vanno ancora più indietro (1977):

 

Questa voce è stata pubblicata in Repressione dei partiti, Repressione dello Stato e contrassegnata con , , , , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Una risposta a Le origini delle condanne ai/alle manifestanti di Genova 2001

  1. gianni ha detto:

    Bravo Salvatore! a NOI non ce la raccontano questi schifosi ed INFAMI. Quanto ci tocca soffrire Salvatore!! Ti abbraccio Gianni

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.