Dalla crisi dello sviluppo alla critica della scienza

LASER

Il ‘68 è un apice, ma non è certo un episodio: un limite dell’operazione storiografica commemorativa che a trenta anni di distanza ha attraversato quotidiani, riviste e mass-media in genere è che si é tentati  di racchiudere in un anno, l’esperienza di militanza di una generazione. Una generazione che all’inizio del ‘60 a muta profondamente per effetto delle grandi trasformazioni sociali che investono il paese, che comincia a leggere differentemente la politica nazionale dopo gli episodi di Genova del ‘60 e di Piazza Statuto a Torino del ’62,  che legge diversamente la politica internazionale dopo l’esplosione della guerra fredda e la sua affermazione nei vari ambiti del mondo (a Cuba e in Vietnam), che percorre un movimento studentesco (quello del 67-68) ma anche un movimento operaio (quello dell’Autunno Caldo del ’69) e un’infinità di circostanze macro e microconflittuali fino alla metà degli anni ‘70.

Parlare del ‘68 nel ‘98 dovrebbe dunque significare parlare di una ipotesi di trasformazione della società nel conflitto sociale di un decennio circa di lotte e di movimenti. Significa in altri termini legare l’esperienza politica di un movimento con l’esperienza teorica e analitica di singole soggettività, che hanno avuto nel corso di quegli anni una intuizione politica non trascurabile: quella di comprendere che oltre a “tirar pietre”, era importante e vitale costruire un nuovo punto di vista rispetto agli aspetti costitutivi della società (al tempo si sarebbe detto un punto di vista di classe).

1. Il progetto “sviluppista” e la sua crisi…

L’immediato dopoguerra è contraddistinto, in Italia -ma più in generale in tutti i paesi attraversati dalla II guerra mondiale- dall’esigenza di ricostruire e far crescere la ricerca scientifica e tecnologica, al pari di tutti gli altri settori-chiave del nostro paese. Inizialmente è l’iniziativa individuale di alcuni ricercatori che consente nel corso della guerra la salvaguardia del patrimonio tecnico e in seguito l’avvio di programmi di ricostruzione. Edoardo Amaldi, nel 1947, interrogato sullo stato della ricerca in fisica in Italia, così   rispondeva:

“Alla fine della guerra la situazione si poteva così descrivere: la ricerca nel campo della fisica era sopravvissuta solo a Roma e a Milano… l’istituto di fisica del politecnico di Torino, distrutto completamente dai bombardamenti alleati, l’istituto di fisica dell’università di Bologna in gran parte distrutto dai bombardamenti alleati; l’istituto di fisica dell’università di Pisa parzialmente distrutto da mine poste dai tedeschi all’atto della loro ritirata da quella città… In queste circostanze è chiaro che in Italia le ricerche di fisica debbano rivolgersi, almeno per i prossimi anni, a quei campi che richiedono un impiego di mezzi relativamente limitato, come ad esempio lo studio della radiazione cosmica. È comunque difficile poter dire oggi se nel prossimo avvenire le condizioni ambientali saranno tali da permettere o meno in Italia un normale sviluppo della fisica, sia pure limitatamente a ben determinate direzioni.”[1]

Va sottolineato che l’Italia presentava, rispetto ad altri paesi europei un gap non indifferente dal punto di vista della strumentazione tecnica e dei mezzi economici a disposizione per la ricerca già da prima della guerra. La guerra accentuò ovviamente tale gap, rendendo necessaria una ricostruzione delle strutture di base della formazione e della ricerca.

Immediatamente fu sentita l’esigenza di avviare politiche specifiche di settore tese ad indicare verso quali direzioni dovesse convergere la ricerca italiana pubblica e privata. In tal senso, analogamente ad altri ambiti, la sinistra italiana accettò come prioritaria una politica di sviluppo delle forze produttive. Per i partiti della sinistra e per il PCI in particolare, sarebbe stata la stessa spinta allo sviluppo che avrebbe generato nel contesto del nuovo stato capitalistico le contraddizioni che avrebbero condotto, in un secondo momento, a trasformazioni rivoluzionarie.

“I compiti che vent’anni fa -scriverà il gruppo de “L’Ape e l’architetto” nel 1976- il movimento operaio organizzato poneva ai ricercatori scientifici della sinistra erano chiari. In primo luogo favorire tutte quelle iniziative in grado di raccogliere le forze più aperte e moderne del mondo della ricerca per rivendicare nei confronti della classe dirigente un impegno di mezzi e un potenziamento di strutture e di funzioni a favore delle istituzioni scientifiche.”[2]

La linea “sviluppista” è di fatto uno dei principi attorno a cui ruota la politica della ricerca italiana nel corso degli anni ‘50 e ‘60. Tale linea viene ulteriormente rafforzata dall’esigenza individuata da più parti, anche se con accenti e prospettive differenti (nel ‘60 dalla Confindustria in un suo convegno a Ischia, nel ‘61 dalla DC nel convegno “Una politica per la ricerca scientifica”) di riforme strutturali capaci di accrescere il finanziamento alla formazione e alla ricerca pubblici e di svecchiare i programmi di studio, in modo tale che lo studente e il ricercatore potessero accedere in modo più consapevole e orientato al mondo del lavoro.

E’ parte essenziale di questo progetto la costituzione o la ricostruzione di organismi statali preposti all’organizzazione della ricerca pubblica (Consiglio Nazionale delle Ricerche, CNEN oggi ENEA, INFN). Alcuni di questi organismi furono proprio il risultato di lunghe lotte volte ad “ottenere un definitivo assestamento dell’organizzazione della ricerca”[3].

Di tale conflitto sono promotrici e attive protagoniste le forze della sinistra, fiduciose che il progresso delle strutture preposte alla crescita scientifica sia un buon viatico per il processo di crescita del paese e  per l’avvio di processi di emancipazione dai vincoli capitalistico-borghesi all’interno delle stesse strutture capitalistiche.

Nel ‘68 questa impostazione sarà fortemente criticata proprio dall’interno del movimento studentesco. L’idea di un abbattimento delle sacche di sottosviluppo (rendita, settori parassitari) attraverso lo sviluppo mediato dall’innovazione tecnologica e scientifica e la contemporanea introduzione di condizioni di vita migliori per la classe operaia si rivela agli occhi del movimento, utopia:

“Il PCI ha un mitico concetto dei settori parassitari e di rendita. Esso immagina che possa esistere una specie di capitalismo perfetto che, distrutti questi settori, concili sviluppo produttivo e avanzamento economico-politico della classe operaia. La modificazione dello sviluppo produttivo sarebbe attuata per mezzo di riforme di struttura [corsivo nostro]… ma cos’è lo sviluppo produttivo? Intensificazione dello sfruttamento, aumento dei ritmi, dequalificazione…”[4]

Ma sono le stesse forze riformiste che presto si rendono conto delle difficoltà di conciliare le esigenze dello sviluppo con le carenze strutturali del nostro paese. Nel 1963, Felice Ippolito, direttore dopo Amaldi del CNRN e dirigente del programma ADONE per la costruzione di un acceleratore di particelle di 1500 MeV viene sostituito da un funzionario ministeriale “che non aveva mai avuto rapporti con la scienza”[5]. L’anno precedente Ippolito era stato condannato per “peculato internazionale” a tre anni di carcere. Ma le vere motivazioni della sua destituzione e di un processi dai risvolti non del tutto chiari, vanno comunque ricercate nell’opposizione dei democistiani e degli organismi come il CISE che raccoglievano gli industriali italiani allo sviluppo della ricerca pubblica. La logica spartitoria, tratto pertinente della politica consociativa, aveva prevalso sugli interessi organizzativi e di sviluppo…

2. Una crescita disorganizzata

Dal punto di vista strettamente quantitativo gli anni Sessanta registrano una crescita effettiva in ogni settore dello Stato e della società civile. Tra il ‘62 e il ‘71 si assiste all’ultimo grande movimento migratorio di questo paese: solo considerando gli spostamenti dal Sud del paese al Triangolo industriale si sposteranno più di 400.000 persone[6]. La concentrazione della forza lavoro nei poli produttivi del nord del paese è il dato rilevante di questo decennio: è la nuova classe operaia che sarà artefice dell’ “Autunno Caldo” del ‘69. Un dato non secondario è tuttavia rappresentato dalla possibilità di accesso alla formazione delle nuove generazioni. Osserva a tal proposito Ginsborg:

“L’aumento delle opportunità nel campo dell’istruzione durante gli anni ‘60 aveva avuto un duplice effetto: da una parte aveva tenuto fuori dalle fabbriche un crescente numero di giovani, accentuando così la rigidità dell’offerta in questo segmento del mercato; dall’altro aveva fatto sì che coloro che entravano in fabbrica portassero con sé una migliore base di cultura generale e una maggiore consapevolezza rispetto alle precedenti generazioni.”[7]

Ovviamente accanto alla crescita della formazione professionale degli operai in fabbrica, si ebbe una rilevante crescita della scolarizzazione superiore e della formazione universitaria, tutti presupposti per una crescita del numero degli occupati nei settori della ricerca. Tra il ‘63 e il ‘70 si registra la crescita del personale impiegato nella ricerca nel privato (da 24.820 a 38.387), ma soprattutto nel pubblico (da 17.509 a 36.989)[8]. Tra il ‘63 e il ‘69 si assiste inoltre ad una progressiva crescita della spesa pubblica in ricerca e sviluppo (dal 0,6 al 0,8 del P.I.L.)[9], settore nel quale -è bene sottolinearlo- l’Italia ha sempre investito molto meno di altri paesi europei.

Questi dati vanno comunque assunti cum grano salis: se la spesa in R&S cresce in rapporto al P.I.L., è altresì vero che la variazione percentuale annua di tale spesa decresce considerevolmente tra il ‘66 e il ‘74. In altri termini, per quanto si assicuri un sempre maggiore apporto alla spesa in R&S, tale spesa rimane sempre fortemente condizionata all’andamento generale dell’economia. Nel periodo considerato lo sviluppo economico si blocca sia per ragioni internazionali (crisi monetaria, crisi del petrolio), sia per ragioni interne (incertezza politica, governi deboli).

Contemporaneamente si ha la grande esplosione demografica delle università italiane che, come sottolinea Ginsborg, erano del tutto impreparate a tale evento:

“Questa nuova generazione di universitari entrò in un sistema che era già in avanzato stato di disfunzione. L’ultima seria riforma universitaria risaliva al 1923 e da allora si era fatto ben poco per rispondere ai bisogni di un numero quasi decuplicato di studenti. Nel 1968 le università di Roma, Napoli e Bari avevano, rispettivamente, 60.000, 50.000, 30.000 studenti, mentre ognuna era stata costruita per accogliere poco più di cinquemila studenti”[10].

Dunque gli anni caldi della contestazione studentesca (‘68-’69) e i successivi anni della agitazione e della mobilitazione nei luoghi pubblici e privati nei quali si sviluppava la ricerca scientifica e tecnologica sono caratterizzati da una forte crescita quantitativa, una vera e propria esplosione demografica, se si prendono in considerazione i soggetti che in quegli anni si collocano in questi contesti. Ma le istituzioni pubbliche e private falliscono miseramente, per motivi economici e politici, nel compito che si erano responsabilmente assunte: il miglioramento delle strutture preposte a “mettere a frutto” il lavoro e lo studio dei nuovi soggetti. In altri termini le strutture per la formazione superiore e dedicate all’innovazione tecnologica mostreranno grandi limiti nella loro capacità di accogliere la nuova “forza lavoro specializzata” che in esse viene introdotta. Si tratta di limiti strutturali, ma anche progettuali e di finanziamento, tali da mettere in discussione la stessa ipotesi sviluppista emersa negli anni precedenti.

Riteniamo che una delle ragioni che conducono ad una critica e ad uno scontro radicale nei contesti della formazione e della ricerca sia proprio da ricercare in questa dimensione della crescita che non coincide con uno sviluppo, una crescita che è quindi incapace di imprimere una organizzazione efficiente al sistema nel suo complesso.

3. Dalla crisi al progetto  della “trasformazione”.

Sarebbe forse una semplificazione teorica pensare che il quadro appena descritto rappresenti il motivo scatenante di un insieme di intuizioni teoriche che emergono in questi anni e che attraversano il movimento degli studenti e dei tecnici in agitazione, ovvero quelle intuizioni teoriche che conducono alla critica dei saperi e all’ipotesi della non neutralità della scienza.

È tuttavia evidente il fatto che le agitazioni e i conflitti sociali che si collocano tra gli anni ‘60 e ‘70 rappresentano un terreno fertile per la nascita di una critica radicale alla visione positivista per cui lo sviluppo scientifico e tecnologico segue un proprio percorso univocamente determinato. Inoltre la critica colpisce anche la quantità dei finanziamenti messi a disposizione per la ricerca scientifica e tecnologica dai vari enti nazionali e internazionali. Per la prima volta nel nostro paese emerge con forza l’idea che lo sviluppo della scienza e della tecnologia debba essere messo in discussione.

Esemplare risulta in questo senso l’aspro dibattito che segue l’approdo dell’uomo sulla luna nel ‘69. Per alcuni risulta essere l’apice di una fantomatica lotta dell’uomo per il dominio delle forze naturali, per altri risulta esclusivamente un dispendio di energie materiali e finanziarie spropositato rispetto all’obiettivo.

Va sottolineato che la critica di questi anni colpisce sia le forze più conservatrici della destra che esaltano la scienza e la tecnologia come forma di dominio (anche militare), sia le forze della sinistra comunista che pur essendo sempre state lontane da una lettura apologetica dello sviluppo scientifico e tecnologico, ne avevano di fatto impedito la critica sottolineandone la neutralità.

In altri termini, riprendendo una lettura classica del marxismo-leninismo (su cui tuttavia anche dal punto di vista interpretativo, occorrerebbe riflettere), gli intellettuali interni al PCI ritenevano che una prospettiva reale di trasformazione si desse esclusivamente nel contesto dello sviluppo delle forze produttive. Tale sviluppo implicava  necessariamente la salvaguardia dello sviluppo della scienza e delle tecnologia come una sorta di terreno in cui il conflitto sociale e “la lotta di classe”, non dovessero entrare. Andava semmai rafforzata, entro le istituzioni della ricerca, la presenza delle forze della sinistra, al fine di garantire una maggiore democrazia nella distribuzione delle risorse e nell’indirizzo dei programmi di ricerca.

La novità teorica concepita in questi anni sta invece nell’immaginare che anche il terreno della ricerca scientifica e tecnologica rappresenta un terreno di conflitto, tanto materiale quanto ideale, ed è proprio la presenza di tale conflitto che garantisce la possibilità di pensare ad una scienza contraddistinta da uno sviluppo eterodiretto, funzionale ai processi di sviluppo capitalistici.

Ecco quindi che la ricerca scientifica e tecnologica diventa uno dei luoghi del conflitto reale, come indicherà uno dei rappresentanti dei lavoratori del CNEN:

“In realtà l’unica domanda che la classe operaia si deve porre nei riguardi della ricerca scientifica è quella di trovare in essa motivi e terreno dello scontro di classe[11]

nonché uno dei luoghi del conflitto delle idee (tra ipotesi continuiste e/o progressiste e ipotesi discontinuiste ovvero di rottura epistemologica in merito allo sviluppo della ricerca scientifica).

4. Ma la critica alla neutralità non era un terreno vergine…

Dunque il ‘68-’69 è anche il biennio in cui dal conflitto emerge la proposta politica e culturale radicale di una critica allo sviluppo della scienza e della tecnologia, critica che colpisce sia la politica della ricerca, sia la visione epistemologica corrente. Sarebbe tuttavia errato pensare che tale critica emerga ex-novo in quegli anni in cui tuttavia essa acquista la forza del movimento di massa e dell’agitazione popolare.

Probabilmente una critica di questo genere non si sarebbe neanche prospettata se non vi fossero stati momenti di rottura con il “paradigma sviluppista” proprio degli anni antecedenti alla contestazione. Un primo “scossone” ci sembra di poter dire che viene dato nel ‘56, quando per la prima volta viene messa in discussione, l’intera ipotesi della “via italiana al socialismo”. Pietro Ingrao ha ricordato in una sua intervista a Nicola Tranfaglia come il PCI si trovò impreparato di fronte ai processi di trasformazione che colpirono l’Italia nel corso del boom economico e come fu incapace di dare a tali processi una lettura nuova:

“Alla radice c’era anche il ‘56… c’era l’espansività e la capacità innovativa dell’ “americanismo”, del capitalismo fordista nella vecchia Europa, e quindi anche in quell’Italia a sviluppo dipendente…. All’inizio degli anni sessanta, noi ci trovammo a fare i conti con una realtà diversa; che non era affatto una realtà pacificata e indolore, ma dava luogo a un altro tipo di contraddizioni. Su questo cominciò nel PCI un lungo contrasto, ancora poco conosciuto, che si sviluppò durante tutti gli anni sessanta, portò a fratture dolorose, ed ebbe conseguenze anche negli anni settanta.”[12]

Questa prima empasse teorica condusse già alla formulazione delle prime critiche entro la sinistra comunista italiana. Innanzitutto cominciò ad essere criticata proprio in quegli anni la figura dell’ “intellettuale organico”, la figura cioè dell’intellettuale come soggetto capace di leggere la realtà coerentemente con la linea del partito e capace in tal senso di arricchire tale linea con nuovi spunti teorici. Tale critica passò attraverso la polemica tra Togliatti e Vittorini; attraverso le prime letture eretiche del marxismo (G.Lukács, K.Korsch, la scuola di Francoforte); attraverso episodi dirompenti come la prima reale crisi interna del partito in seguito ai fatti di Ungheria (e la contemporanea uscita dal partito di molti intellettuali).

La critica al ruolo che la teoria gramsciana assegnava classicamente agli intellettuali apriva una prima breccia alla critica dei saperi. In altri termini poneva fine al tentativo di omologazione al “pensiero unico” proprio della tradizione del marxismo filo-sovietico.

Riteniamo tuttavia che il contributo più importante che prima della rottura del ‘68 venne portato alla tematica della critica dei saperi e alla prospettiva della non neutralità della scienza risalga a Raniero Panzieri. Lo spunto teorico, anche in tale circostanza emerge nel contesto di una rinnovata conflittualità sociale: quella che conduce nel ‘62 ai fatti di Piazza Statuto a Torino. Conflittualità dirompente perché nata nel contesto di una nuova soggettività operaia, quella soggettività protagonista dei grandi movimenti migratori precedentemente descritti e al tempo stesso profondamente impoverita dal contatto con le grandi città del Nord che offrivano ben poco sul piano dei beni di prima necessità e che presentavano invece chiaramente l’alienazione della nuova fabbrica automatizzata e della catena di montaggio, l’ultima evoluzione del fordismo-taylorismo.

Panzieri, nei suoi contributi ai “Quaderni Rossi”, sottolinea con chiarezza che la scienza e la tecnologia non svolgono assolutamente un ruolo neutrale almeno all’interno dei processi di produzione. Le mansioni che l’operaio è chiamato a svolgere all’interno della fabbrica sono determinate dalle caratteristiche della produzione e dall’organizzazione del lavoro. Due elementi che a loro volta dipendono strettamente, nello sviluppo capitalistico proprio del periodo considerato, dall’apporto e dalle novità sostanziali che la scienza e la tecnologia determinano.

La lettura che Panzieri sviluppa in tal senso dell’opera di Marx è profondamente innovativa e si fonda su due elementi sostanziali. Da un lato Panzieri critica quelle letture del marxismo che affermano che il conflitto tra capitale e lavoro, si sviluppa solo sul piano della proprietà dei mezzi di produzione, in tal senso la prassi politica classica contraddistinta da un lato dalla richiesta di un’estensione della proprietà pubblica e dall’altro dall’azione sindacale intesa come collaborazione ai meccanismi gestionali e lavorismo, verranno da Panzieri giudicati inefficaci e controproducenti. Dall’altro Panzieri sottolinea come la fabbrica fordista automatizzata, che rende l’operaio una parte ausiliaria della macchina (la vera protagonista di tale fabbrica), si presenti come il luogo in cui la scienza e la tecnologia determinano i processi di produzione. La scienza e la tecnologia definiscono i mezzi di produzione (le macchine) e intervengono nei processi di organizzazione del lavoro ridefinendoli.

“La fabbrica automatica stabilisce potenzialmente il dominio dei produttori associati sul processo lavorativo. Ma nell’applicazione capitalistica del macchinario, nel moderno sistema di fabbrica “l’automa stesso è il soggetto, e gli operai sono coordinati ai suoi organi incoscienti solo quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati a quella forza motrice centrale”. Si può dunque stabilire tra l’altro: 1) che l’uso capitalistico delle macchine non è, per così dire, la semplice distorsione o deviazione da uno sviluppo “oggettivo” in se stesso razionale, ma esso determina lo sviluppo tecnologico; 2) che “la scienza, le immani forze naturali e il lavoro sociale di massa… sono incarnati nel sistema delle macchine e.. con esso costituiscono il potere del padrone”. Dunque, di fronte all’operaio individuale “svuotato”, lo sviluppo tecnologico si manifesta come sviluppo del capitalismo: “come capitale e in quanto tale la macchina automatica ha consapevolezza e volontà nel capitalista”[13]

Dunque l’azione operaia, a giudizio di Panzieri, deve rivolgersi criticamente al processo di produzione, alle macchine, poiché le macchine sono il mezzo mediante il quale si realizza lo sfruttamento dell’operaio. Ciò non implica assolutamente un facile luddismo, ma semmai la necessità di individuare come la scienza e la tecnologia entrano nei processi produttivi e come modificare la natura oppressiva e alienante dell’uso capitalistico delle macchine.

L’intuizione di Panzieri mostra un percorso teorico e pragmatico al tempo stesso: rinnovare la pratica del conflitto di classe da un lato e dall’altro di immettere nuovi elementi di critica dei meccanismi di produzione della scienza e della tecnologia, nella consapevolezza che tali meccanismi non sono privi di implicazioni per ciò che concerne il conflitto stesso, ma ne sono semmai il cuore palpitante.

5. L’eredità di Panzieri nella critica de “L’ape e l’architetto”

Il lavoro di Panzieri, determinò un dibattito acceso all’interno della sinistra italiana, ma soprattutto -dal punto di vista strettamente politico, è la critica di Panzieri che promuove per la prima volta la costituzione di gruppi politici organizzati esterni alla coppia classica partito-sindacato. Saranno tali gruppi a promuovere l’azione nella contestazione studentesca e a rinvigorire il conflitto operaio nell’ “Autunno Caldo”. Come sottolinea Ingrao:

“… fummo in quegli anni chiusi e saccenti nella polemica con lui [Panzieri, N.d.R.]. E non capimmo a tempo l’influenza che esercitò almeno su tutta una leva di intellettuali, e le ragioni non marginali di questa influenza. Infine non comprendemmo che cominciavano a sorgere forme di aggregazione politica non riducibili alla coppia classica partito-sindacato. La sinistra cominciava a mutare i suoi modi di essere e i suoi centri di elaborazione culturale…”[14]

Tra gli anni sessanta e settanta prende corpo la critica dei gruppi extraparlamentari alle forze della sinistra istituzionale (perlopiù il PCI) e al tempo stesso emerge la necessità di una lettura nuova dei processi di sviluppo capitalistico, che come abbiamo visto, gli stessi gruppi dirigenti delle forze della sinistra stentavano a comprendere o che interpretavano attraverso categorie ormai obsolete.

Dal punto di vista del problema della critica dello sviluppo scientifico e tecnologico, ciò significava avviare un nuovo programma di ricerca che -proprio a partire dall’intuizione di Panzieri- gettasse luce sul ruolo che oggettivamente la ricerca svolge nella società da un lato e dall’altro sulle modalità attraverso le quali lo sviluppo sociale influisce nello sviluppo della ricerca. Panzieri aveva chiarito solo il ruolo che la scienza e la tecnologia svolgono all’interno della fabbrica fordista-taylorista, ma cosa dire allora della produzione della conoscenza? Si configura anch’essa come un processo intimamente conflittuale? Quali contraddizioni presenta tale conflitto? Quali ne sono gli attori sociali?

Ma dopo aver gettato luce sulle caratteristiche sociali della produzione di conoscenza, rimaneva aperta pure una altra questione di ordine importantissimo: se la scienza e la tecnologia svolgono un ruolo non neutrale nel contesto della produzione materiale, come ripensare ad una ricostruzione storica ed epistemologica che tenga presente questo elemento di non neutralità? Ossia come fornire una ricostruzione adeguata del processo di acquisizione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche che tenga presente questo insanabile conflitto?

Entrambi questi aspetti (il ruolo sociale della scienza e l’influenza dei rapporti sociali nella produzione scientifica) saranno alla base di una serie di riflessioni teoriche che emergeranno per tutto il corso degli anni ‘60 e daranno vita ad un dibattito molto articolato.

6. La situazione internazionale

Prima di sviluppare compiutamente l’analisi dei gruppi di ricerca che si occuperanno del tema della non neutralità della scienza, va comunque osservata la situazione internazionale, poiché anche tale situazione, fornirà spunti determinanti alla discussione.

Gli anni sessanta, come del resto il precedente periodo del dopoguerra sono contraddistinti dal conflitto tra Stati Uniti (e la sua alleanza militare, la NATO) e URSS (e la sua alleanza militare, il Patto di Varsavia), conflitto che prende il nome di “guerra fredda” nonostante la guerra sia “guerreggiata” in forme e modalità differenti in diverse parti del globo. Il conflitto stesso si gioca sulla possibilità imminente, che costituisce anche il principale deterrente all’esplosione di un conflitto palese, di usare la bomba atomica. La bomba atomica è anch’essa il frutto di uno dei più ambiziosi programmi di ricerca del XX secolo: il “progetto Manhattan”, sviluppato nel corso della II° guerra mondiale.

Quello della ricerca scientifica diventa un nuovo terreno di confronto tra le due superpotenze. I terreni su cui tale confronto si sviluppa sono principalmente due: lo sviluppo della ricerca nucleare e la conquista dello spazio. In tali ambiziosi progetti vengono sperperati fondi ingenti e la principale giustificazione risulta essere sempre di carattere scientifico: la necessità di ampliare la quantità di conoscenze. Il confronto strategico a distanza tra le due superpotenze è in realtà il vero fine di tali programmi di ricerca: a tal fine vengono fatti proseguire fino al ‘63 gli esperimenti nel campo del nucleare militare, con esplosioni di bombe atomiche in diverse parti del globo e a tal fine si lancia la sfida alla conquista dello spazio (prima Yuri Gagarin effettua il volo attorno alla terra, poi nel ‘69 l’Apollo 11 atterra sulla luna).

Nonostante la fiducia nutrita specialmente nel continente europeo di un uso esclusivamente pacifico del nucleare, ciclicamente, in diverse parti del globo si accendono focolai di rivolta che ripropongono la possibilità della guerra termonucleare globale. Esemplare è quanto accade a Cuba nel 1962, quando la presenza di sottomarini sovietici dotati di testate nucleari scatena una rilevante crisi nei rapporti USA-URSS.

L’impianto della ricerca scientifica e tecnologica destinata ad uso militare è una vera e propria macchina che i governi delle superpotenze rendono costantemente attiva nei vari settori e ambiti specifici: nello sviluppo delle armi nucleari, chimiche, batteriologiche;  nello sviluppo della balistica e della missilistica; nello sviluppo della marina e della aeronautica; nello sviluppo del radar e delle comunicazioni. La comunità scientifica impegna energie e risorse, divenendo uno dei motori principali dell’innovazione nel modo di condurre i conflitti.

Di fronte a questa realtà divenne sempre più difficile immaginare che gli scienziati svolgessero un ruolo “asettico” nel contesto dello sviluppo della società e nei conflitti politici internazionali. Anche l’idea della bomba atomica come “peccato originale”, che la comunità scientifica sviluppò dopo Hiroshima, sembrava una comoda semplificazione, perché riduceva a episodio estemporaneo (l’idea del peccato è proprio quella di essere un evento nefasto di cui pentirsi e da non ripetere) un problema oggettivo legato alle finalità e gli scopi della ricerca scientifica.

Non casualmente la coscienza della comunità scientifica si destò di fronte ad episodi clamorosi ed eclatanti come l’uso delle bombe al napalm in Vietnam alla fine degli anni sessanta, episodi che mostravano quale capacità distruttiva potesse avere un uso non lecito della ricerca scientifica.

Altri spunti non trascurabili, provenivano inevitabilmente da tutto ciò che nel resto del mondo si muoveva fuori dalla contrapposizione USA-URSS. Non va infatti dimenticato come una parte della sinistra intellettuale italiana e non solo italiana volgesse lo sguardo verso le esperienze di emancipazione che si delineavano in varie parti del terzo mondo, oppure il fascino (forse ancora tutto da chiarire) che esercitavano ad esempio le esperienze della Cina protagonista della “rivoluzione culturale”.

Le vicende politiche degli anni ’60, l’ipotesi teorica di Panzieri e il quadro internazionale di sviluppo del sistema capitalistico forniscono gli elementi per una nuova analisi del ruolo della scienza e della tecnologia nella società.

7. L’ape e l’architetto

Faremo qui esplicito riferimento alla riflessione teorica presente ne “L’ape e l’architetto” perché rappresenta un caso esemplare, a nostro giudizio, di come l’insieme di elementi finora descritti da luogo ad una riflessione innovativa.

La ricerca avviata dal gruppo di fisici dell’Università di Roma era mirata ad individuare i criteri attraverso i quali si manifesta il rapporto tra scienza e società, ove la scienza è intesa come una proiezione ideologica dei rapporti sociali materiali che sussistono in un dato periodo storico. E la società è intesa come l’ambito dei rapporti materiali ovvero l’ambito della produzione, circolazione e consumo delle merci nel contesto del capitalismo. L’affermarsi del modo di produzione capitalistico e la sua evoluzione nella fase avanzata dell’imperialismo delinea un apporto sempre più determinante della scienza e della tecnologia nei momenti costitutivi del sistema capitalistico.

“Il problema c’è ed è reale, è inutile negarlo; è quello di affrontare la ricerca dei nessi esistenti fra la scienza, in quanto forma particolare di attività sociale umana e i rapporti sociali di produzione che regolano in generale l’attività lavorativa degli uomini in questa società. Questo significa che occorre passare da un generico giudizio -ormai largamente accettato- di “non neutralità” della scienza , a una individuazione più puntuale dei vari livelli di interazione reciproca fra queste attività, dei meccanismi attraverso i quali tale interazione si esercita e infine delle linee di intervento possibili per una trasformazione del ruolo sociale della scienza attraverso il riconoscimento esplicito di finalità sociali da affermare in alternativa a quelle perseguite dalla scienza della società capitalistica contemporanea”[15].

In tal senso il rapporto tra scienza e società si delinea come un rapporto circolare nel quale la scienza proietta ideologicamente le forme proprie della struttura sociale e la società è trasformata e modificata dalla azione dei prodotti della conoscenza scientifica e tecnologica. Dunque:

“… le teorie scientifiche, nei loro contenuti specifici, si portano addosso inevitabilmente, accanto al loro positivo comprendere gli oggetti, nel senso di essere effettivo piano ideale della prassi umana, tutte le conseguenze “ideologiche” del rapporto sociale entro il quale sorgono…”[16].

In altri termini i giudizi della scienza sono al tempo stesso giudizi di fatto se osservati come leggi che regolano i processi naturali e giudizi di valore se osservati come espressioni metaforiche che rinviano alle proprietà intrinseche dei rapporti sociali entro i quali emergono.

Il contesto della “scienza pura”, di quella attività umana che gli apologeti della neutralità ritengono finalizzata esclusivamente alla produzione di conoscenza, è il centro di propulsione da cui si dirama la trasformazione delle modalità della produzione capitalistica. In primo luogo poiché ad essa la scienza contribuisce con sue proprie merci che entrano nei processi produttivi e di consumo: l’invenzione e l’innovazione sono merci che hanno un valore d’uso informazionale, merci che entrano nel mercato capitalistico. In secondo luogo perché la “scienza pura” viene utilizzata in forme diverse nel contesto della produzione: essa fornisce un terreno per il collaudo di una serie di tecniche produttive o di prodotti che poi successivamente entrano nel contesto della tecnologia e quindi della produzione; essa fornisce i linguaggi specifici, le metodologie, i formalismi, gli algoritmi che sono introdotti nei contesti della scienza applicata; essa inoltre dispone di grandi laboratori che inevitabilmente finiscono per essere dal punto di vista organizzativo dei modelli di divisione del lavoro riproducibili nel contesto della produzione.

Dal punto di vista sociologico, la ricerca scientifica si definisce come la produzione di una merce pregiata: l’informazione scientifica, con modalità di produzione analoghe a quelle della grande fabbrica automatizzata fordista-taylorista. I luoghi di concentrazione di tale produzione sono i grandi laboratori (SLAC in America, CERN in Europa) che imprimono un nuovo trend ai processi di crescita della conoscenza  e legano tale trend all’esigenza di una crescita della produttività (restringimento dei tempi dell’elaborazione scientifica, necessità di incrementare il numero delle pubblicazioni, selezione progressiva dei programmi di ricerca in base al criterio dei tempi tecnici di realizzazione).

Nel grande laboratorio di ricerca, la gerarchia rinnova la condizione della fabbrica: i gradini più alti sono occupati da chi dirige la ricerca trasformandosi in “scienziato manager”, i gradini più bassi sono occupati da chi si riduce a sperimentatore o raccoglitore di dati nella “catena di montaggio” della produzione della conoscenza.

“Ne segue… che “come accade per il resto della forza-lavoro, centinaia di fisici sono ormai condannati a vita a svolgere un lavoro noioso, privo di senso e alienante.” In queste condizioni… i membri dell’establishment della fisica assumono nei confronti dei loro colleghi più giovani lo stesso atteggiamento di quei manager dell’industria “che hanno sempre considerato i loro dipendenti più come mezzi di produzione che come esseri umani”.[17]

Dal punto di vista epistemologico e ricostruttivo sul piano della storia della scienza, traendo spunto sia dalle tesi convenzionaliste dei primi anni del secolo, che dai più attuali contributi al dibattito epistemologico post-popperiano, gli autori de “L’ape e l’architetto” delinearono la tesi di una scienza non neutrale che accoglie in sé e rispecchia le proprietà emergenti della società in cui si definisce:

“Non solo non è univoco il rapporto fra i fatti su cui vertono le teorie scientifiche e queste ultime, ma gli stessi enunciati di leggi scientifiche, lungi dall’avere una validità autonoma rispetto al contesto storico e sociale della scoperta, hanno una validità correlata al contesto storico-sociale in cui sono sorte e si sono affermate… Un altro punto importante che conviene chiarire meglio è l’uso del termine correlazione invece di dipendenza per indicare il rapporto che esiste tra la giustificazione di una teoria, il suo essere riconosciuta valida e il contesto sociale in cui ciò avviene. Si è voluto così sottolineare il fatto che le varie scienze non sono semplicemente rispecchiamento di qualche livello della realtà, ma rappresentano un processo attivo di ricostruzione di essa. La scienza fornisce dunque informazioni sulla realtà elaborandone una partizione in vari livelli conoscitivi, costruendo categorie concettuali e apparati sperimentali adatti alla definizione sempre più precisa di questi livelli.”[18]

8. Le critiche a “L’ape e l’architetto” e l’interpretazione del materialismo dialettico.

L’ipotesi di ricerca del gruppo de “L’ape e l’architetto” suscitò critiche e polemiche. Essa fu criticata sia come tentativo di descrizione dell’evoluzione della scienza nella società capitalistica avanzata, sia come indirizzo di ricerca di carattere epistemologico.

Come abbiamo visto la descrizione del lavoro scientifico poneva la considerazione dei luoghi di produzione della conoscenza come luoghi di conflitto. Dava quindi senso e giustificazione alla mobilitazione che nel corso degli anni sessanta e settanta caratterizzò il mondo della ricerca e della formazione. Ma soprattutto indicava la necessità di una definizione del tutto nuova delle modalità di lavoro e produzione delle conoscenze.

Ciò delineò da parte della sinistra istituzionale il tentativo di leggere come “insoddisfazione” quello che era invece un genuino tentativo di trasformazione delle istituzioni scientifiche. Nel 1972 uscì un quaderno di “Critica marxista” intitolato “Sul marxismo e le scienze”, nel quale la tematica della non neutralità della scienza fu affrontata in un articolo di Stefano Petruccioli e Carlo Tarsitani. L’articolo in questione iniziava così:

“In questi ultimi anni, soprattutto tra i giovani ricercatori, si è andato diffondendo un atteggiamento di “insoddisfazione” nei confronti dei contenuti della propria attività e da più parti è stata sottolineata la necessità di giungere ad una comprensione del reale significato conoscitivo della scienza e ad una conseguente esplicitazione del “rapporto” esistente tra quest’ultima e i sempre più complessi problemi della società contemporanea. Anche se il più delle volte non si è andato molto al di là della semplice e talvolta anche ingenua, manifestazione di una esigenza, riteniamo sia necessario valutare attentamente il fenomeno, che si presenta spesso con caratteristiche nuove, e cogliere la profonda importanza dei problemi teorici e politici che esso solleva.”[19]

Contemporaneamente, anche se con toni sicuramente diversi, gli esponenti del PCI si apprestavano a leggere gli episodi del ‘68 come la manifestazione di un “bisogno” deformato da una errata lettura della società contemporanea:

“Sui temi relativi al rapporto tra scuola e società… si sono addensate negli ultimi tempi non poche deformazioni e confusioni, ad opera di gruppi che ambiscono -in aperta contrapposizione ai partiti “storici” della classe operaia- a rifondare una corretta analisi marxista e strategia rivoluzionaria… Troppo spesso, nei documenti e sulle riviste di tali gruppi, quel che accade nella scuola e, innanzitutto, la politica scolastica del governo, vengono, così, puramente e semplicemente ricondotti agli interessi dei grandi gruppi capitalistici, e questi stessi interessi vengono presentati in forma semplificata e categorica anziché essere colti nella loro intrinseca complessità  e nella complessità della dialettica sociale e politica in cui realmente agiscono…”[20]

La critica dei saperi e la richiesta di trasformazione avanzata nel corso delle mobilitazioni degli anni sessanta si trasformò insomma nelle dinamiche dei partiti istituzionali, in un tentativo di “cavalcare la tigre” edulcorando le tesi più avanzate emerse dalle varie mobilitazioni e inserendole in una dinamica di crescita del consenso ai partiti della sinistra.

Certamente diverse furono invece le caratteristiche del dibattito epistemologico sul tema della non neutralità della scienza. Va considerato a tal proposito che sul giudizio espresso nel merito pesò indubbiamente la tradizione di riflessioni che erano state elaborate specialmente dalle correnti culturali marxiste interne ed esterne al PCI. In particolare grande peso assunsero nel contesto di tale dibattito gli studi derivati dal materialismo dialettico.

La lettura di classici del marxismo, come le opere di F.Engels e “Materialismo ed empiriocriticismo” di V.I.Lenin, avevano delineato uno sviluppo della ricerca scientifica ed epistemologica. Da un lato i gruppi di ricerca italiani dovevano confrontarsi con l’esperienza negativa del DIAMAT sovietico, nel quale di fatto si sosteneva l’esistenza di uno sviluppo dualistico della ricerca: da un lato la “scienza borghese” ideologicamente corrotta dal capitalismo e dall’altro la “scienza proletaria” liberata dalle pastoie della scienza borghese. Questa visione non neutrale della ricerca scientifica era tuttavia profondamente errata poiché condannava senza appello alcuni dei più importanti contributi allo sviluppo della ricerca scientifica contemporanea come la meccanica quantistica e al tempo stesso riteneva possibile la fondazione di una logica dello sviluppo della ricerca alternativa fondata sulla dialettica marxista.

Si tentò in tal senso, da parte del “gruppo di Milano” di L.Geymonat, una nuova interpretazione del materialismo dialettico, nella quale fosse presente una definizione dello sviluppo scientifico dialettico non viziata dalle storture del DIAMAT staliniano. Il gruppo di Geymonat analizzò lo sviluppo della ricerca scientifica come uno sviluppo intimamente progressivo, caratterizzato cioè da una crescita del contenuto empirico delle conoscenze e al tempo stesso dialettico, caratterizzato cioè dalla costante contrapposizione di teorie e ipotesi di ricerca.

Il gruppo di studiosi vicini a Geymonat fu critico nei confronti dell’ipotesi di non neutralità della scienza elaborata dai fisici di Roma (il gruppo de “L’ape e l’architetto”) non tanto per rivendicare una presunta neutralità della ricerca, quanto per sottolineare che il rapporto tra scienza e società delineato da questi ultimi risultava essere troppo stringente rispetto invece alla maggiore complessità che si delinea nello sviluppo della ricerca scientifica.

Geymonat stesso si espresse a tal proposito distinguendo una non neutralità filosofica della scienza da una non neutralità pratica della scienza. Per non neutralità filosofica della scienza Geymonat intese un processo di progressiva acquisizione di conoscenze filosofiche di fondo capaci di gettar luce sugli elementi tematici comuni alle diverse discipline scientifiche. Inevitabilmente infatti nel corso dello sviluppo della ricerca vanno incontro ad un sempre più diffuso specialismo. Sarebbe lo specialismo stesso, a giudizio di Geymonat a diffondere una percezione neutrale della scienza:

“Malgrado il diffondersi di una certa interdisciplinarietà, resta comunque assai scarso interesse per i problemi generali. È il fenomeno che suole venire indicato con l’espressione “neutralità filosofica della scienza”… È inutile dire che la scissione di problemi scientifici e filosofici ha contribuito moltissimo ad emarginare la scienza dalla cultura, diffondendo la convinzione che la scienza sia una attività inferiore: una mera fabbrica di strumenti (teorici e pratici) sempre più sofisticati, a disposizione di chiunque sia in grado di servirsene. È qui che si radica la convinzione che la scienza sia neutrale non solo filosoficamente ma anche praticamente.”[21]

Geymonat evidentemente poneva come centrale per il superamento di una tale neutralità, la configurazione di attori sociali capaci di fornire quadri d’insieme della ricerca (scienziati-filosofi) e di impedire quindi il diffondersi inconsapevole dello specialismo.

Ciò che invece Geymonat criticò fu proprio l’idea di una non neutralità pratica della scienza, partendo dall’idea che appunto ogni progresso della conoscenza possiede una funzione emancipatrice, liberatrice e che una critica alla configurazione della scienza nella società industrializzata non può condurre ad una messa in discussione di questa idea:

“Oggi constatiamo che la società altamente industrializzata impone al singolo individuo un tipo nuovo di asservimento… Di qui una sempre più aspra ribellione contro le società industrializzate, “livellatrici”, in grado di spegnere ogni anelito di libertà; è una ribellione che spesso si esplica in una contestazione generale della scienza, della tecnica e della stessa razionalità. Alla scienza e alla tecnica si muove infatti il rimprovero di avere reso possibile questo processo di scandaloso asservimento dell’uomo della nostra epoca, o perlomeno di averlo enormemente incrementato. Un approfondito esame critico del problema ci permette tuttavia di ridimensionare la portata delle argomentazioni testé riferite; ed è proprio la dialettica marxista a suggerirci questo approfondimento. Essa ci insegna infatti a studiare nella sua globalità il processo storico di formazione e sviluppo della società altamente industrializzata in cui viviamo; processo che non può venire compreso, isolando uno dei suoi fattori (lo sviluppo scientifico-tecnico) senza tenere conto della lotta di classe nella quale esso trovasi inserito. Lo studio del processo anzidetto nella sua globalità non solo varrà a dimostrare il carattere illusorio e utopistico della battaglia che alcuni pretenderebbero di ingaggiare contro la scienza e la tecnica, ma varrà per di più a convincerci che l’incremento di spirito critico causato dallo sviluppo della razionalità scientifica è proprio in grado di fornirci strumenti sempre più raffinati per l’analisi della società in cui viviamo, e in particolare per l’analisi delle radici profonde delle sue contraddizioni.”[22]

9. Conclusioni

Questi spunti di riflessioni sono sicuramente non esaurienti perché rinnovano un dibattito che più che evolversi si è perso nella storia culturale del nostro paese. Rinnovarlo presenta il rischio oggettivo di perderne i punti salienti e le sfumature. L’epistemologia italiana emerge con una sua specificità dal dibattito degli anni ’60, coniugando una lettura nuova e per certi versi atipica del marxismo con una analisi storica dei processi di affermazione della “big science” e con una critica originale del modo con cui i dirigenti politici italiani si accostarono al problema dello sviluppo. Negli anni ’60, la letteratura sulla non neutralità della scienza si arricchisce in tutto il mondo di contributi significativi. L’epistemologia e la sociologia della conoscenza cominciano finalmente a svelare le forme attraverso le quali la scienza si articola nelle sue fasi produttive. Nel nostro paese, per effetto delle dinamiche tutte politiche dei movimenti, il contributo teorico immediatamente punta all’analisi dei rapporti tra scienza e tecnologia intese come produzione di conoscenza, e contesto sociale ed economico intesi come produzione materiale. In tal senso il suggerimento teorico era di guardare non ad una qualsiasi non neutralità della scienza, ma a quella non neutralità che deriva dall’esercizio dello sfruttamento del lavoro scientifico e dalle esigenze produttive del capitale che spingono e selezionano i progetti di ricerca.

Fu questo atteggiamento che spinse alcuni a guardare l’atterraggio dell’uomo sulla luna con scetticismo, sottolineando che il prezzo di quella impresa sarebbe stato pagato con le vite umane di bambini del terzo mondo. Sottolineando che dietro l’ideologia della ricerca spaziale si masherava un complesso meccanismo di sfruttamento delle risorse materiali ed umane. Sottolineando che lo stesso bagaglio di conoscenze scientifiche realizzate nel contesto dei paesi occidentali era asservito allo stesso meccanismo coercitivo delle forze capitalistiche.

Fu questo atteggiamento che produsse le spinte teoriche di liberazione del ’68, facendo intravedere la possibilità di fare scienza in modo diverso.

E’ questo atteggiamento che vogliamo attuale.


[1] E.Amaldi, “Rapporto a G.P.Harnwell sullo stato della fisica in Italia” in (a cura di Giovanni Battimelli e Michelangelo De Maria) Da via Panisperna all’America, Editori Riuniti, Roma 1997, pp.185-187.

[2] AAVV, L’ape e l’architetto, Feltrinelli, Milano 1976, pag.9.

[3] Ibid., pag.13.

[4] AAVV (a cura di Luisa Cortese), Il movimento studentesco (storia e documenti 1968-73), Bompiani, Milano 1973, pag.34.

[5] Paolo Bisogno, Enrico Bernardini, “La politica della scienza” in L.Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1997, Vol.VI (5), pag.476.

[6] P.Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989.

[7]Ibid.

[8] Paolo Bisogno, Enrico Bernardini, op. cit., pag.458-59.

[9]Ibid., pag.457.

[10] P.Ginsborg, op. cit.

[11] AAVV, L’ape e l’architetto, cit., pag.31.

[12] Pietro Ingrao, Le cose impossibili (Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia), Editori Riuniti, Roma 1990, pag.115.

[13] Raniero Panzieri, “Sull’uso capitalistico delle macchine” in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1976, pp.5-6. (le citazioni tra apici sono da Karl Marx, Il Capitale, libro I).

[14] Pietro Ingrao, op. cit., pag.125.

[15] AAVV, L’ape e l’architetto, cit., pag. 91.

[16] Ibid., pag. 66.

[17] Ibid., pag. 114. [le citazioni sono da R.Yaes, Physics from another perspective. A cynical overview.]

[18] Ibid., pag. 132.

[19] Stefano Petruccioli e Carlo Tarsitani, ““Non neutralità” della scienza e impegno del ricercatore” in AAVV, Sul marxismo e le scienze, quaderni di “Critica Marxista” n°6, Roma 1972, pag. 65.

[20] Giorgio Napolitano, Scuola, lotta di classe e socialismo, Editori Riuniti, Roma 1971, pag. 78.

[21] L.Geymonat, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano 1977, pag. 111.

[22] Ibid., pp. 120-121.

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