Lasciamo lontano da noi le religioni, ma anche la tuttologia.
Sono passati alcuni giorni dall’attentato alla redazione di Charlie Ebdo, si saranno acquietate le passioni e le tifoserie, si può provare a fare un ragionamento con i piedi per terra. Terra fangosa, infida, scivolosa; ma pur sempre terra, più concreta delle fumisterie ideologiche.
Proviamo quindi a ripercorrere, seppur brevemente, le storie di queste persone che hanno attentato a Charlie Hebdo il 7 gennaio. Non riduciamo a una sequela di fotogrammi di fatti delittuosi la storia complessa e multiforme delle persone costrette ai gradini bassi della società. Le storie dei tanti proletari che popolano questa terra devono essere conosciute nel loro svolgersi, nella loro intrigata articolazione, nelle opportunità non colte, nei fallimenti. Ciascuna biografia ha un valore immenso per capire che succede in questo mondo. Non si può ignorare.
Nati e vissuti nelle periferie francesi, le banlieue, hanno cercato, al pari di altri e altre, di arrabattarsi nel trovare un lavoro, nel fare i conti con la disoccupazione e con l’aumento del costo della vita. Nelle periferie, nelle banlieue, vivere non è facile. Si vive male, le condizioni di vita sono sempre state dure e gravose. Tuttavia quei proletari, per combattere le avversità e lo sfruttamento crescente, hanno costruito nel tempo i propri strumenti di lotta: sindacati, comitati, assemblee, consigli, ecc., e con questi si sono organizzati, hanno lottato e, con tutte le difficoltà, hanno fatto dei passi avanti.
C’erano anche i partiti di sinistra che, con tutti i limiti, portavano avanti parzialmente interessi di questi settori di classe a cui chiedevano il voto. Parzialmente e timidamente e anche in accordo con lo sviluppo capitalistico che li sfruttava, per queste la polemica e la litigiosità, spesso, segnava i rapporti tra i settori proletari più malmessi e queste organizzazioni partitiche, che comunque costituivano un punto di riferimento.
Poi, man mano, questi strumenti sono venuti meno. In parte brutalmente sciolti dalla repressione o messi nell’impossibilità di agire; in parte corrotti o addirittura portati all’interno delle necessità del nemico, ossia del capitale.
Restati senza nessuno strumento per vertenze rivendicative, di fronte all’imperversare della crisi che massacrava ulteriormente le condizioni di vita e di lavoro, questi settori proletari non hanno avuto alternative se non riprendere spontaneamente le proteste. I tumulti e le rivolte sono dilagate nelle periferie di tutte le città europee. La risposta dello stato: manganellate, arresti, teste spaccate, regole sempre più repressive prodotte sotto l’allarme dell’emergenza. I proletari delle banlieue francesi hanno ancora provato con la protesta, dandosi strumenti visibili, come il MIB (movimento delle banlieue). Sempre
manganellate hanno ricevuto, con arresti e vanificazione di ogni trattativa.
La realtà delle periferie è stata descritta vergognosamente dai media come una sommatoria di attività illegali, di fatti criminosi. Non come residenze, devastate, in cui vivevano settori della popolazione proletaria, luoghi in cui mancava tutto, in preda a speculazioni che sfregiavano ancor di più quei territori. Le condizioni dei proletari che vi abitavano continuamente peggioravano.
La popolazione residente è stata costretta a praticare attività extralegali che hanno investito fasce di popolazione crescenti a causa della disoccupazione, della diminuzione e della precarietà del salario. Ciò ha favorito una competizione tra poveri intorno ai piccoli lavori e all’attività extralegale. Competizione che può diventare (e molti soffiano su questo fuoco) “guerre tra poveri”.
Potremmo continuare a elencare i tantissimi tentativi fatti da questi abitanti delle periferie. Ma quel poco ricordato è sufficiente a dare l’immagine della impossibilità vertenziale e conflittuale di questi settori di classe. Sarebbe necessario approfondire l’esatta ricognizione su questi territori, rilanciando le inchieste attente che considerino anche le attività extralegali.
Possiamo però trarre le prime considerazioni. Se non c’è conflitto, se non c’è lotta di classe, se lo stato impedisce con la forza che si sviluppino conflitti e rivendicazioni, se la repressione impone a tutti la passiva accettazione dell’ordine capitalista, non ci possiamo stupire che alcuni soggetti cerchino altre alternative, visto che quelle che essi stessi avevano costruito e che si erano storicamente consolidate sono state spazzate via. Non ci dobbiamo sorprendere che alcuni di questi “ultimi” cerchino approdi ideologici e religiosi per ancorarvi la propria disperazione. Nel secolo scorso e in quello precedente, altri sottoproletari e proletari europei, in preda a disperazione analoga, approdavano alla “Legione straniera” strumento che raccoglieva tutti per utilizzarli nella colonizzazione e nella feroce repressione dei popoli che tentavano di liberarsi dal giogo della “grande Francia”.
Da qui dobbiamo e possiamo ripartire. E andare avanti. Rilanciare il conflitto sui bisogni dei settori di classe delle periferie, è il lavoro da fare. Lavorare sodo per costruire strumenti autorganizzati adeguati allo scontro attuale. Costruire e radicare nei territori periferici comitati di proletari impegnati nelle lotte e di quelli disponibili a lottare. Comitati, consigli, assemblee con partecipazione di massa, che sappiano raccogliere tutte le tensioni presenti e irrisolte nel territorio e nei luoghi di lavoro; sappiano organizzarle in una piattaforma rivendicativa e sappiano portarla avanti con la lotta. Questa pratica conferisce alle incazzature proletarie un respiro di lotta di classe per la liberazione del proletariato.
Questo è da fare! E rapidamente!
Questo è parlare concretamente e suggerire un metodo di lavoro. Le religioni sono sempre servite ai popoli per dare un senso alla vita dei credenti, ma non hanno mai suggerito un “metodo” per raggiungere certi obbiettivi, una esistenza dignitosa, accettabile su questa Terra. Voglio condividere questo blog con gli amici.