Gli effetti della reclusione

Il carcere è, deve essere, un luogo di pena, di “sofferenza legale“.

Nessun riformatore, nessun legislatore, per quanto illuminato, è mai riuscito a scalfire questa funzione-sistema dell’universo custodiale, che investe innanzitutto i reclusi, ma si riverbera sui cittadini liberi, formando una doppia «aura»: deterrente da un lato, normativa dall’altro.

La prigione che può anche apparire come un fossile vivente, sorta di residuo incongruo della repressione e del controllo sociale, non è solo un’ingombrante vestigia del passato.

Abbiamo tentato in altre pubblicazioni di esplicitare le diverse fasi, attraverso cui la prigione (intesa come istituzione insieme dinamica e contestuale) ha svolto, nel corso del tempo, le sue spire disciplinari, afflittive e «correzionali».

Brevemente si può qui ricordare che, a nostro avviso, il carcere, dopo aver assolto una funzione istituzionale pura, di distruzione dei corpi reclusi, in quei periodi storici che necessitavano della punizione esemplare e dell’annientamento fisico dei rei, ha assunto via via una funzione «più dolce», determinata dall’uso materiale, produttivo, dei detenuti.

Le due fasi, le due forme estreme, non corrispondono a una lineare successione cronologica: possono, viceversa, coesistere, elidersi o rinascere senza alcun vincolo meccanicistico.

Tentando una definizione del carcere occidentale contemporaneo, abbiamo individuato i suoi tratti peculiari in una “sintesi inedita” sia della funzione istituzionale, sia della funzione produttiva. Vale la pena, a questo proposito, ricostruire per sommi capi il dibattito sul penitenziario svoltosi negli anni recenti. Dopo la creazione nel nostro paese del “carcere speciale”, ci si è chiesti da dove provenisse questa forma di reclusione apparentemente anomala, illegale, a un primo esame persino in contrasto con la lettera della riforma.

Le proposte interpretative sono largamente note. Secondo l’analisi di non pochi detenuti politici, il carcere di massima sicurezza nasce dall’esigenza militare dello stato di punire, distruggendoli, i suoi nemici irriducibili. Ad avviso di alcuni studiosi garantisti, il carcere speciale si presenta come una forma di eccesso propria del periodo di emergenza, ma del tutto incongruente col sistema penitenziario modellato dalla riforma. Secondo altri esperti, infine, le “unità” di massima sicurezza sostanzierebbero la modalità punitiva tendenzialmente egemone, irriformabile, una sorta di nucleo duro delle pratiche di “sequestro istituzionale”. Altre modalità di controllo, contemporaneamente, si diffonderebbero in strutture aperte e soprattutto nelle forme di autoesclusione etnica, culturale eccetera, tipiche delle grandi metropoli.

Nella nostra proposta di analisi, la funzione istituzionale del carcere non si è mai esaurita, né quella produttiva, malgrado le apparenze, è mai divenuta obsoleta. Il carcere speciale le sintetizza entrambe. Se la prima si è evoluta tecnicamente ed è visibile nell’annientamento dei detenuti irrecuperabili, la seconda si è ampiamente modificata. La “funzione produttiva”, non deve richiamare oggi l’immagine delle “workhouses” inglesi né il carcere-fabbrica del capitalismo degli albori. Il lavoro e lo sfruttamento dei detenuti, nel carcere contemporaneo, sono dislocati in buona parte fuori dal carcere, nel “carcerario”, costituito dall’intreccio tra il lavoro precario, le attività marginali e le stesse attività criminali.     […]

Victor Serge paragona l’impatto provocato da quella «situazione ambientale estrema» che è il carcere allo shock provato da un maratoneta che venga improvvisamente immobilizzato… Serge individua tre tipi di ossessioni che dominano i detenuti fin dal primo momento

in cui viene loro sottratta la libertà: preoccupazione ininterrotta per il proprio «caso»; eccessiva apprensione per i propri familiari; ossessioni di natura sessuale.    […]

Lo “spazio, il “tempo” e la “comunicazione bloccata” sono i tre spigoli forti del «recinto». Per neutralizzare immaginariamente la barriera che lo separa dalla libertà, il prigioniero può mettere in campo dei comportamenti di compensazione istintiva, può servirsi di un particolare linguaggio del corpo…

Il carcere fa male, genera delle menomazioni, degli handicap, di conseguenza dei

disturbi e infine delle malattie psico-somatiche…

«Era la prima volta che entravo in galera e quello che mi ha subito colpito è stato il fatto di sentirmi mutilato. Non avevo più le braccia né le gambe. Non potevo far niente. Le cose che mi servivano erano distanti chilometri. Dovevo sempre chiedere, domandare a un altro: allo spesino alla guardia, a un lavorante. Non ero più autosufficiente. Per ogni cosa dovevo fare la “domandina”: è come sentirsi paralitico».

La “domandina” rappresenta in carcere l’emblema più grottesco e irritante dei labirinti burocratici; il carcere è anche questo: sorta di ufficio pubblico che punisce con la lentezza dei suoi «servizi» e obbliga l’utente alla completa paralisi…

«La paura fisica, le botte, sì, la violenza, sono l’aspetto principale della detenzione.

Se ci fai caso tutti i coatti, tutti coloro che hanno trascorso un periodo medio-lungo in galera, portano i segni delle guardie, il marchio dell’istituzione sui loro corpi.

Arti spezzati, denti rotti, facce sfigurate. Il pestaggio è lo strumento del potere interno, è il suo mezzo di controllo più evidente. Ti possono ammazzare e nessuno ti paga. Sì, anche adesso certi detenuti sono alla mercé della violenza fisica».

(da: Ermanno Gallo – Vincenzo Ruggiero IL CARCERE IMMATERIALE)

scaricabile:

http://www.ristretti.it/areestudio/cultura/libri/il_carcere_immateriale.pdf

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