10 settembre, giornata mondiale per la prevenzione del suicidio

Oggi 10 settembre 2019 è la giornata mondiale per la prevenzione del suicidio.

Le cifre sono raccapriccianti: ogni anno 800.000 persone si suicidano e circa 20 milioni tentano il suicidio.

I suicidi in carcere sono più numerosi di quelli della popolazione esterna; tra 6 e 8 volte superiori.

In carcere, dal 2000 al 31 agosto di quest’anno sono stati 1.085, con una media di oltre 54 suicidi l’anno; l’anno scorso, il 2018, sono state 67 le persone detenute che si sono tolte la vita; su una popolazione che oscilla intorno alle 60.000 unità. Negli ultimi 3 mesi giugno, luglio e agosto del 2019 si sono avuti 16 suicidi.

C’è chi attribuisce l’alto numero dei suicidi in carcere al sovraffollamento, chi alla mancanza di lavoro, chi alle condizioni pessime delle carceri italiane, chi alla scarsa attenzione ai rapporti con la famiglia, chi ad altre complesse motivazioni.

In questo periodo storico, ha preso piede la tesi secondo cui chi pensa al suicidio e lo mette in pratica, sia persona affetta da disturbi mentali. Questa tesi è ormai diventata inoppugnabile ed è andata a sostituire quella basata sulle ipotesi eziologiche genetiste/lombrosiane. Così alcune associazioni di psichiatria dichiarano che le persone che si suicidano in carcere sono affette da infermi mentale, maturata durante la detenzione e di conseguenza propongono di imbottire i detenuti di psicofarmaci, con grande profitti di chi questi farmaci produce e vende. Difatti nelle carceri c’è stata grande diffusione di infermerie psichiatriche che propinano psicofarmaci a oltre il 60% della popolazione detenuta. Se la tesi degli psichiatri fosse corretta vorrebbe dire che lo stato italiano, per mezzo del carcere, produce infermi di mente: e c’è ancora qualcuno che dice che il carcere è necessario?

Purtroppo per gli psichiatri, non è così. Chi conosce il carcere per esserci stato, ha imparato che il suicidio, al contrario, è un atto consapevole, lungamente ragionato dalla persona detenuta che esamina l’emarginazione e la solitudine imposta, valuta l’abbandono in cui è stato gettato e verifica l’impossibilità di spezzare questa catena. Se si convince che non potrà riconquistare una vita autonoma, dopo lungo riflettere, conclude che la soluzione è il suicidio, unica fuga che può permettersi con le proprie forze. Ne sono prova le lettere scritte dalle persone che si suicidano. Ma anche le lunghe chiacchierate di notte con quei detenuti che hanno tentato il suicidio.

Tante iniziative hanno preso piede intorno alla data del 10 settembre: seminari, dibattiti, congressi, convegni cui prendono parte psichiatri, psicologi, professori di psicofarmacologia e di neuroscienze. In tutti questi appuntamenti si dice con sussiego che bisogna prevenire. Giusto!

Prevenzione, parola quanto mai adeguata, ma in questi simposi viene esaltato l’uso del litio o dei farmaci antipsicotici, della stimolazione magnetica transcranica, e ancora l’uso di nuovi farmaci: è il trionfo degli oppiacei legali.

Non è difficile intravedere la lunga mano delle multinazionali farmaceutiche.

Come in carcere, anche fuori non ha senso cercare la prevenzione in vecchi o nuovi farmaci, che possono solo peggiorare le cose, si può fare qualcosa operando sulla trasformazione delle condizioni materiali e sulla qualità delle relazioni umane. È questo un ragionamento che vale ovunque, visto che i regimi sociali, in questo periodo, costruiscono gabbie sociali molto simili al carcere, ovunque.

Per quanto riguarda strettamente il carcere, il modo di prevenire i suicidi è abolire il carcere.

 

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