I braccianti scrollatisi di dosso il controllo della mafia e dei caporali intensificano la lotta per affermare i propri interessi. Lo stato risponde con la strage.
Il 2 dicembre 1968, ad Avola, la polizia aprì il fuoco contro una manifestazione di braccianti, sotto i colpi della forza pubblica rimasero uccisi Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, circa 50 i feriti da arma da fuoco e centocinquanta le denunce.
Avola una cittadina, a pochi chilometri da Siracusa, è una zona ricca di orti e di agrumi. Conosciuta per la qualità delle mandorle, le migliori.
Da tempo era iniziata la protesta dei braccianti, rivendicavano l’aumento della paga giornaliera dalle 3.110 alle 3.480 lire come percepivano i braccianti della zona A. In quell’Italia latifondista, democristiana e mafiosa le aree erano divise in “gabbie salariali” con paghe diverse. La provincia di Siracusa era divisa in due zone: la zona A, che comprendeva i comuni di Lentini, Carlentini e Francoforte e la zona B, con Siracusa e i restanti comuni della provincia, in cui la paga era inferiore e l’orario di lavori più lungo di mezzora. La logica delle “gabbie salariali” riguardavano tutto il territorio nazionale, serviva a favorire gli investimenti di capitale e i profitti conseguenti e indeboliva la compattezza della forza lavoro, frantumata dalle differenze salariali. Ci sono voluti i possenti scioperi del 1968-69 per spazzare via le “gabbie”, oggi rinate sotto altre forme.
I braccianti agricoli aderenti alle organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) da due anni avevano intrapreso una grande lotta, con numerose proteste e scontri come quelli verificatisi a Lentini con feriti e arresti, per ottenere un aumento del 10 per cento sulle paghe per equipararle a quelle della zona A.
Gli agrari si arroccarono sul NO e rifiutarono perfino l’incontro con le rappresentanze sindacali. Gli scioperi si intensificavano, il 25 novembre veniva indetto uno sciopero generale per sbloccare la situazione, oltre 30.000 lavoratori agricoli entrarono in sciopero, proprio nelle giornate in cui maturavano le arance. La lotta si allargò e si inasprì, coinvolse anche i sindaci dei paesi che partecipavano ai cortei.
Il 2 dicembre venne indetto ancora uno sciopero generale per la vertenza dei braccianti. Loro avevano l’appoggio della popolazione e degli studenti e in massa dilagarono nelle strade provinciali, ostruendole con mucchi di pietra. A questo punto il governo, sollecitato dagli agrari, attivò i prefetti perché ordinassero ai sindaci di far rimuovere i blocchi, ma il sindaco di Avola, Giuseppe Danaro rispose «andrò a unirmi agli scioperanti per presentarmi alla polizia e intimarle di abbandonare il paese».
I braccianti si erano scrollatisi di dosso il controllo della mafia e dei caporali ed erano lì ad affermare i propri interessi, non restava allo stato che tirar fuori i militari: arrivarono nove camionette cariche di agenti, per complessivi novanta militari col mitra, il tascapane pieno di bombe lacrimogene e l’elmetto da guerra. Questi iniziarono lanciando quantità enormi di bombe lacrimogene cui risposero grandinate di pietre proletarie, anche il vento si ribellò e scelse da che parte stare rimandando il fumo in faccia ai militari. Altri braccianti accorsero a ingrossare il blocco. lo stato non volle cedere e ordinò la fucilazione di massa, che scompaginò il blocco di scioperanti.
Due ammazzati con i mitra, tanti i feriti da arma da fuoco, oltre 50 arrestati e 150 denunciati. I militari dopo il massacro se ne andarono velocemente, temevano che dai paesi la rivolta li sommergesse.
Restarono sulla strada oltre due chili di bossoli, carcasse di due automezzi della polizia dati alle fiamme., chiazze di sangue. Sulle motociclette e motorini dei braccianti i militari avevano sparato sui serbatoi per sfregio, per vendetta, per vigliaccheria, per impedire di spostarsi. Lo stile dei militari riproduce esattamente quello mafioso, se ti ribelli devi essere punito, non si trasgredisce l’ordine e, con le armi si ribadisce a tutti qual’è l’ordine del potere: l’alleanza capitalisti, stato, mafia non ammette ribellioni.
Saputo della strage di Avola, in ogni posto di lavoro si attuarono fermate dal lavoro e manifestazioni.
Sindacati e sinistra moderata chiesero il “disarmo della polizia”, per poi dimenticarsene e diventare, dopo qualche anno, questurini.
Le assemblee cittadine e di fabbrica analizzarono i motivi della strage. Era tutto terribile ma chiaro! L’apparato di potere aveva detto la sua con decisione: l’ordine capitalistico-mafioso è immodificabile; le briciole del “boom economico” verranno offerte alle masse solo in cambio della totale sottomissione.
La strage di Avola e quelle successive (il 9 aprile eccidio di stato a Battipaglia) ha dato uno scossone al movimento del ‘68, per far capire che la polizia di stato può sparare. Difatti sparerà anche nelle manifestazioni studentesche, come la notte del Capodanno del ‘68 durante una contestazione a Viareggio degli studenti contro i frequentatori del lussuoso e squallido locale notturno “La Bussola”: Soriano Ceccanti rimarrà paralizzato dai colpi di arma da fuoco e continueranno
Avola, con la sua rivolta, contrastata dallo stato con la strage, ha segnato uno spartiacque per tutto il decennio successivo: non più subire, rilanciare l’offensiva di classe contro questo sistema marcio da rivoluzionare dalla fondamenta.
Dopo Avola e, Battipaglia, ci fu il ferimento del compagno studente di Pisa, Soriano Ceccanti, colpito da un proiettile dei Carabinieri l’ultimo dell’anno 1968 alla Bussola di Viareggio e rimasto su una sedia a rotelle (Sofri ed io fummo denunciati quali organizzatori); in seguito altri morti culminati con la Strage di Stato di Piazza Fontana; per il PCI e la CGIL eravamo pagati dai padroni, dei provocatori e dei potenziali assassini, come Pietro Valpreda ! cosa si aspettavano che “mettessimo dei fiori nei nostri fucili”. Ma ci facciano il piacereeee ! La Storia si sta ripetendo…… ieri in Francia e domani in Italia.