Ancora sulla legalità: uguali a chi?

Uguali a chi?

“Il regno della libertà non giunge rendendo gradualmente

più confortevoli i letti delle prigioni”.

(Ernst Bloch)

Molti scrivono di carcere. Scrivono, analizzano e si dilettano a trovare le “cose che non cellavanno” e propongono perfino dei rimedi. Per fare che? Pensate un po’: per evitare che la gente trasgredisca le leggi e accetti le regole di questa società che, come tutti sappiamo, è il migliore dei mondi possibile.

Il punto centrale da cui partono questi presunti “riformatori” è più o meno lo stesso per tutti e, non rispondendo alla realtà, le loro proposte di “riforme” si sciolgono come neve al sole.

Questi “riformatori” affermano che il delinquente che trasgredisce una norma è come se provocasse una ferita alla convivenza sociale. Si presume quindi che ci sia una convivenza tra uguali e il reato sia una frattura dell’equilibrio sociale esistente e dunque il delinquente che l’ha compiuta necessiti di “risocializzazione” attraverso la “rieducazione”, come è scritto nel famoso art. 27 della altrettanto famosa Costituzione.

La “rieducazione” viene attuata per mezzo della sanzione, e questa viene calibrata secondo le norme dall’ordinamento sanzionatorio penale o civile ed erogata dall’apparato giudiziario-poliziesco-carcerario. Le sanzioni, in questo caso il carcere ma anche le esose sanzioni pecuniarie, potrebbero e dovrebbero essere meno afflittive, dicono i “riformatori”, per rieducare appunto, addirittura dovrebbero essere improntate alla prassi “riconciliatoria”.

Come avviene quando, all’interno di una comitiva, due amici/amiche litigano fortemente provocando una ferita in quella socialità, rottura che spesso viene ricomposta grazie all’opera “riconciliante” di altri membri della comitiva.

Bene! Bravi! Ma c’è un piccolo problema: la società in cui viviamo non somiglia affatto a una comitiva o qualcosa del genere e dunque la trasgressione di una legge non è la rottura di una socialità equilibrata. Il reato non avviene tra due soggetti “uguali”, che hanno uguale proprietà di beni, stesso tenore di vita, stesso ruolo sociale! La società è divisa in classi, in proprietari e senza-proprietà, in ricchi e poveri, in sfruttatori e sfruttati, in potenti ed emarginati, esclusi, perdenti.

Casomai avviene il contrario: sono proprio queste differenze, sempre più marcate e odiose, che spingono a trasgredire la legge per non soccombere, oppure per modificare le ineguaglianze e le ingiustizie sociali esistenti che le leggi tutelano e riproducono.

Alla luce di questa semplice costatazione i concetti che danno un senso alla sanzione come quelle intorno alla “rieducazione” del reo previste dalle costituzioni, dai proclami dei diritti dell’uomo, dalle organizzazioni internazionali, ecc., ecc., assumono un altro significato. Meno entusiasmante!

Che vuol dire dunque rieducare in una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Scusate la terminologia datata ma non ho trovato, tra quelle in circolazione, definizioni altrettanto rispondenti alla realtà.

Eppure è vero che la sanzione e in generale il carcere, sua massima espressione, rieduca! Ma a quali comportamenti rieduca?

rieducazNon rieduca forse ad accettare passivamente il livello di sfruttamento attuale e la sua arroganza? Ossia accettare, ad esempio, a essere pagati “al nero” a meno di 3 € per un’ora di lavoro? Accettare di essere licenziati o di non vedersi rinnovati il contratto per la voglia di profitto o per i capricci del padrone, o anche per questo fantasmagorica roulette chiamata mercato?

Certo che il carcere rieduca; rieduca a osservare le ingiustizie sempre più brutali! Osservarle passivamente per giungere infine a non notarle affatto. Rieducati ad arrancare nella scala sociale sempre più spietata per i perdenti! Rieduca ad accettare di vedere i poteri mafiosi, quelli finanziari, quelli bancari e delle multinazionali sempre più legati tra loro e in possesso, sempre più, delle nostre vite e del nostro futuro, dei territori in cui viviamo e dell’aria che respiriamo! Rieducati ad accettare di vivere nel terrore di sentirsi inadeguati o subire la stimmate del fallimento di fronte alle richieste di prestazioni sempre più disumane!

Essere rieducati a non ribellarsi a non protestare a non boicottare né sabotare l’arroganza del potere, nemmeno quando questi produce saccheggi di risorse, devastazioni umane e massacri.

Ma andiamo oltre. La mancata rieducazione, affermano i “riformatori” porta il delinquente a tornare a delinquere. Questa è una banalità ma anche una cretinata. Che volete che tornino a fare coloro che sono stati relegati a forza in un ambiente socio-economico nel quale non c’è altro mezzo per reperire reddito, insomma per mangiare, se non attraverso attività extralegali? Non è da oggi che il sistema economico capitalistico, oltre una crescita impetuosa di ricchezza -a danno di un ambiente devastato- di cui godono poche persone sempre più ricche e potenti, produce anche una fascia consistente di donne e uomini che non hanno vie d’uscita, che restano ai margini della ricchezza sociale non potendo vivere se non di espedienti. Una fascia sociale la cui grandezza oscilla con l’oscillare della coppia sviluppo/crisi-ristrutturazioni, ma che è sempre stata molto consistente e oggi in forte incremento. Non c’è possibilità di inserimento lavorativo per tutte e tutti sufficiente a condurre una vita dignitosa. Non c’è né ci sarà mai in ambito capitalista. Questa marginalità ha una sua funzione importante: tenere basso il costo della forza lavoro e attenuare il conflitto di classe.

È proprio questa la funzione della rieducazione: rieducare ad accettare le condizioni attuali di sfruttamento. Subire senza ribellarsi!

E allora perché illudersi e illudere che il sistema repressivo, ossia il carcere, in questo contesto possa essere riformato a vantaggio di chi vi viene sbattuto dentro? Avevano dunque ragione quegli studiosi del sistema carcere che affermavano che: “ogni sforzo per una riforma del trattamento del delinquente trova il proprio limite nella situazione dello strato proletario, socialmente significativo, più basso, che la società vuole trattenere dal commettere azioni criminali”.

E allora: come si può immaginare un cambiamento della politica penale lasciando inalterati gli assetti economici, il sistema proprietario e l’ordine sociale?

Chi in prigione subisce la frantumazione della propria esistenza ha una sola risorsa: l’atto di ribellione. Meglio se collettivo e organizzato. La ribellione collettiva in carcere riconquista il tempo di vita sottratto dalla galera. La storia del carcere ci insegna che anche i miglioramenti, piccoli e momentanei, però importanti, si sono avuti grazie alle proteste e alla rivolte [TOT PROMESSE TOT RIVOLTE è stato lo slogan gridato e messo in pratica qualche decennio fa]. Proteste, lotte, ribellioni collettive e organizzate hanno ridato volto e parola a chi non aveva né l’uno né l’altra; le proteste individuali non producono cambiamenti a meno che siano il detonatore di una situazione pronta alla rivolta collettiva.

SicurezzaI “riformatori” aggiungono un’altra nozione, quella della “sicurezza dei cittadini”. Ma non precisano di quale sicurezza si tratta, né chi sono i cittadini che dovrebbero usufruirne. Conoscendoli, credo si riferiscano alla tutela della sicurezza delle proprietà di chi ne ha tante, e non vuole dividerle con alcuno; così come alla salvaguardia della sicurezza di chi ha i mezzi e la volontà per continuare a sfruttare e arricchirsi sul lavoro altrui.

Ma c’è un’altra sicurezza, quella di chi vorrebbe assicurarsi di avere un salario tutti i mesi e che questo sia sufficiente a campare tutti i giorni del mese. La sicurezza di non morire sul lavoro, né restare invalido e nemmeno contrarre malattie dovute alla sicurezza dei padroni di fare come pare a loro nei posti di lavoro e nei territori. E, perché no, vorrebbe la sicurezza di riuscire a cambiare, lottando, questa società, ribaltandola.

Insomma, anche di sicurezze ve ne sono più di una. Tante quante sono le classi in cui si articola questa società. E ciascuna classe ha la sua sicurezza.

E allora bisogna scegliere da che parte stare. Loro, i “riformatori”, hanno scelto di stare dalla parte di chi è favorito da questo sistema sociale e vuole riprodurlo.

Da parte nostra abbiamo scelto l’altra barricata, frontalmente contrapposta a quella dei potenti e della folta schiera di chi gongola alla loro corte.

La lotta è in corso da tempo e non vi sono mediazioni possibili.

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Una risposta a Ancora sulla legalità: uguali a chi?

  1. vittoria ha detto:

    un caro saluto Salvo!
    vittoria

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