Sono tante le persone che si indignano per il sovraffollamento carcerario e per le condizioni di invivibilità delle carceri italiane. E a volte dicono:
«perché i detenuti non si uniscono in una protesta collettiva?»
Perché dovrebbero unirsi? Unirsi e lottare collettivamente è l’eccezione, non la regola. L’unità per lottare si può realizzare grazie a molti sforzi, con importanti presenze e solidi rapporti con l’esterno.
Vi risulta che negli ospedali i malati si uniscono per lottare? Se lo fanno è una rarità. Più comunemente ciascuno e ciascuna cerca di guarire individualmente, si raccomanda al medico, agli infermieri, per sconfiggere la malattia e farla finita col dolore e la menomazione.
Non immaginate quanta somiglianza ci sia tra il carcere e l’ospedale. Ma non come ci spiegano i filosofi in quanto “dispositivi” di disciplinamento e organizzazione dei corpi. Più semplicemente perché lì dentro in ospedale e in carcere si soffre. E la sofferenza divide, non unisce! Perché? È semplice: perché la sofferenza non si può condividere. E nel carcere di sofferenza ce n’è tanta, Tanta! E non dipende solo dal sovraffollamento!
Non si può condividere la sofferenza della galera. La sofferenza è solo di chi ci sta dentro!
Pensa il carcerato e la carcerata: mi dicono di pensare anche alla sofferenza degli altri. Minchia!, certo che ci penso! Lo so che anche gli altri soffrono, parenti, familiari e amici soffrono, ma questo non riduce di niente il mio dolore, casomai lo aumenta. Il mio è un dolore unico, è diverso, è solo mio. Possibile che non ve ne rendiate conto?
Il detenuto/a prova a pensare che anche quelli delle celle di fianco alla sua soffrono come lui/lei. Lo so che ci sono altre celle occupate perché le guardie, prima della mia cella e dopo, aprono altre porte, e il carrello del vitto dopo la mia cella continua verso altre celle. Anche loro stanno in isolamento come me, ma proveranno lo stesso dolore? Certo soffrono, ma io sento solo il mio dolore, mica quello loro. Il mio è più forte perché lo sento. Posso misurare il mio dolore non quello degli altri. Il mio lo sento e nessuno riesce a ridurlo, ad acquietarlo. Gli altri li sento distanti, anche se soffrono. Sempre più distanti.
La sofferenza divide, non è vero che la sofferenza accomuna. Se soffri ti dà fastidio qualsiasi presenza a meno che non sia totalmente dedicata ad accudirti e confortarti per lenire la tua sofferenza. Quando soffri, pretendi che la solidarietà sia a senso unico: tutta dedicata a te. L’attenzione verso gli altri e verso l’ambiente è una rarità, un’eccezione, una conquista, ed anche una gran fatica, perché bisogna organizzarsi.
Se soffri sei convinto che il tuo dolore è il più forte di tutti. Ti dicono che non è così, ma come fai a misurare la sofferenza, a dargli dei valori? Non è come la febbre che puoi misurarla con un termometro o la pressione con uno strumento adeguato. Né medici, né farmaci possono metterci rimedio. Il dolore della galera non si può misurare e nemmeno sapere dove si colloca. Non sai localizzarlo, è un dolore diffuso, allo stomaco lo sento, come un crampo, nella testa sento che mi si è installato un vuoto che si allarga, ma anche nelle spalle, nei piedi, e avanza…
Non posso confrontare la sofferenza e sono convinto che il mio dolore sia maggiore, che io sia l’unico a soffrire… e mi stupisco perché gli altri non se ne accorgano e non cerchino di occuparsi del mio dolore. E poiché non se ne occupano sento rabbia e repulsione, gli altri li sento distanti, anzi ostili, nemici, li odio. E sono sempre più solo. L’uomo, la donna che soffre si ritira in sé e si allontana dagli altri, la sofferenza lo costringe a una relazione privilegiata con la sua pena.
Succede a tutti, non solo ai prigionieri, chiunque ha un dolore forte, che so, ai denti, di quelli che fanno urlare, quanti riescono a pensare a qualcos’altro diverso dal proprio dolore? La frase più comune sulle lettere che i carcerati scrivono ad amici e parenti è questa: “tu non puoi capire come si soffre qui.
Infatti chi non è stato in carcere non può capire. Come chi non ha mai fatto l’amore non sa di che si parla.
La pensavano così anche alcuni costituzionalisti. Nel proporre al Senato repubblicano nel 1949 una “Commissione di inchiesta” sulle carceri rimaste identiche a quelle del periodo fascista, si richiese esplicitamente che a farne parte ci fossero parlamentari che erano stati in galera sotto il fascismo: «Bisogna aver visto, bisogna esserci stati».
Chi non sta qui non può capire – dice il carcerato/a.
«…ho letto ormai molti testi di prigionieri e ho notato praticamente sempre in essi (e quindi anche in me per molto) questa tendenza ipersensibile, inevitabilmente colpevolizzante verso gli altri per l’inevitabile, “oggettiva”, infine esasperante difficoltà di comprensione della propria condizione da parte di chi recluso non è. «possibile che non mi capiate?» sembra dire ogni prigioniero «o non è vero piuttosto che ormai ve ne fregate di me?» si leggano per esempio le belle e drammatiche lettere di Gramsci dal carcere, malato in lotta contro la morte che arriverà dopo non molti anni: in una lettera se la prende con sua cognata in modo quasi feroce; qualche lettera dopo si rende conto dell’inevitabile difficoltà a capirsi e perciò le chiede scusa. …si vedrà che spesso chi viene arrestato abbandona il «realismo» che aveva fuori e abbraccia l’estremismo ottimista (in realtà disperato) della maggioranza dei carcerati». (Guagliardo “di sconfitta in sconfitta“).
E allora cari cittadini “indignati”, o riuscite a imporre al governo di svuotare le carceri, oppure … lasciate stare!!!
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carissimo Salvatore, è un periodo che ho problemi col mio computer; questo per dirti che ti seguo sempre col cuore anche se non trovi alcun commento e trovi in noi grande comprensione e partecipazione alle tue sofferenze presenti e passate (per modo di dire). Finalmente ti stai esprimendo con parole umane riguardo al tuo vissuto interiore presente e passato. facendoti conoscere anche da coloro che non ti conoscono di persona. Pensieri, riflessioni, verità, testimonianze che non fanno una grinza e mi/ci addolorano, ma ti invito a dare delle indicazioni di metodo su come intervenire correttamente nella fase che stiamo attraversando attualmente da un punto di vista militante. Sono pronto anch’io a “scarachiare” in faccia agli “indignati” ma dopo lo sfogo, comprensibilissimo, rimane il solito “Che fare?” perchè se è vero, come è vero, che questo blog serve come momento di riflessione e di convergenza per i compagni, bisogna sforzarci di dare delle indicazioni di intervento sul carcerario. Hai qualche idea? Ti abbraccio forte ,forte Gianni ed Alberta
pure io ti seguo sempre Salvo ma sto carcee sociale mi angoscia troppo, mi colpiva leggendo quello che hai scritto come le differene fra dentro e fuori siano poche, stiamo tutti in galera in effetti, in merito a che fare? per me la risposta l’ha data Lenin, altrimenti si resta nell’indignazione e basta
Oliva, confesso la mia ignoranza, non ricordo cosa suggerisse Lenin a proposito del carcere. Facciamo la rivoluzione? non mi sembra un suggerimento a quanto esposto da Salvatore, ma neanche quello di chiedere agli “indignati” di pretendere che il governo svuoti le carceri; rischiano di dare delle indicazioni gettate al vento! o no? Non condivido nemmeno che le differenze tra dentro e fuori al carcere siano poche. Ricordo che quando entrai a Volterra, come neofita del carcere, ebbi a dire ai compagni: “Non crediate di perdere granchè rispetto al fuori!”. Non interloquirono a questa mia battuta per rispetto alla mia militanza pregressa e perchè ero un neofita del carcere, ma in seguito mi pentii di aver fatto questa battuta. Penso che Salvatore, come tanti altri compagni ancora detenuti mi capiscano ed allora rimane sempre il “Che fare” di leninista memoria ma che non è attuale nell’odierno contesto. Sono tanti gli interrogativi odierni e non si può rispondere in maniera massimalista. Con affetto e simpatia Gianni ed Alberta
Entro per prima volta in questo blog, dunque non so chi sei.. dopo leggo ..
Sto dicidendo di andarein carcere.. si suona strano..
Conosco abstanza bene la situazione del carcere.. .. per diversi motivi. Si certo, ben diverso viverci..
e cerco articoli scritti da chi ci è stato, e come non confronto.
Molto interesante lo che scrivi ma sai fuori po essere anche una sofferenza tremenda…e situazione senza uscita.
Suicidarmi mi scoccia un gran tanto.. cercano proprio le isituzione a portarmi a questo.. cosi levo il disturbo. .. Storia scomoda.
in carcere avro un tetto, papa, il miracolo di un avvocato.. e sicuramente mio paese si deciderà ad intervenire… Potro leggere.. scrivere.. ma mi alletta anche potere anche essere utile.. qui fuori sono sterile.. e sopratuto sta cosa che sembra che ci sia solidarietà.. in definitiva. Si quando si sofre è dura.. ma ancora piu dura la completa indiferenza nel mondo ” normale”..
Cerco di non perdere il senso del umorismo: anche andare in carcere non è semplice. Per andare dentro dovrei fare un reatto piutosoto serio. Si ce qualque consigli di addetti ai lavoroi grazie…
ps. lo intendo anche come ulteriore forma di protesta.. fra illegalità fuori e illegalità dentro.. la libertà non a senso a certe condizione.
Carissima “Violet”, ho letto il tuo commento e mi è venuto un brivido alla schiena. Andare volontaria in carcere da carcerato/a? Per chi ci è stato vent’anni totalmente rinchiuso ( e poi altri 10 in semilibertà) tentando ogni giorno di fuggire, di evadere, di raggiungere la libertà, è una mazzata!
Capisco che fuori è duro vivere e anche sontanto “campare”. Questa società è intrisa di una violenza partcolarmente subdola, quella che non si vede ma che fa più male. Per questo gli squallidi esaltatori di questa società ma anche quelli che ci convivono accettandola, si definiscono “non-violenti”, peroprio per rifiutare la violenza trasformatrice o anche solo antagonista e accettare, convivere con la “violenza” istituzionale, quella che consente a mantenere e riprodurre questo stato di cose.
Io non ti do consigli, né suggerimenti. Fai pure ciò che ti senti di fare. Ti racconto soltanto una mia emozione, forse la più intensa provata nella mia vita: quando, dopo aver segato le sbarre di un finestrone del carcere, mi sono trovato sul muro di cinta. Di là, oltre il muro, una strada sporca, dissestata, che ben rappresentava le miserie della vita esterna, la lotta per sopravvivere, la mancanza di solidarietà e la lotta di tutti contro tutti ciascuno a sopraffare gli altri… eppure avendo alle spalle la cella, il rumore degli scarponi, i ritmi disumani del carcere, il furto di tempo di vita che lì dentro avevo vissuto… ebbene quel tratto di strada sporca e lercia mi manifestava la massima espressione di libertà e di felicità.
Anche perché me la stavo conquistando con le mie mani:
La differenza tra dentro e fuori è questa: se anche dentro avessi la cella più bella e signorile possibile, i migliori pasti ecc, e fuori la vita più crudele e disagiata… per me la scelta sarebbe immediata. Io ho trascorso quasi 10.000 notti in una branda di un carcere, non potendo scegliere né dove né con chi dormire. Dunque in carcere ti rubano il “tempo di vita”, ti rubano la vita e la possibilità di essere felice, anche per un solo istante. Non è un problema di pasti e di “tetto sulla testa”. Abbiamo una vita sola da vivere, fatta di anni, di giorni e di notti… e non dobbiamo permettere a nessun potere di rubarcela, né a noi, né a nessuna e nessun altro.
Un abbraccie e auguri per le tue scelte di vita.
salvatore
carissimo Salvatore, ho letto la tua risposta a Violet e mi sono venute le lacrime agli occhi ed un desiderio fortissimo di abbracciarti forte, forte come la prima volta che ci siamo conosciuti e con uno sguardo ci siamo capiti! Ci sono stato poco in carcere, ma abbastanza per dire: “quando esco vado in cima ad una montagna ed a costo di mangiare radici di campo, per un bel pezzo non scendo più!” E’ il colmo per uno di noi che hanno vissuto lottando in tutte le maniere possibili, desiderare di uscire per prendere fiato. Non era pentimento, credimi, perchè rifarei tutto da capo senza tentennamenti, senza egoismi, anche nelle situazioni più compromettenti…era amore di libertà in senso lato, desiderio di “dare” a tutti coloro che lo meritano, bisogno di “esserci” in questo mondo di esseri schiacciati in tutti i sensi e non di vegetare dentro quattro mura tra le quali perde significato ogni tuo desiderio di amare, di leggere, di vedere, di conoscere, di comunicare, dando un senso concreto o concretizzabile alla tua vita che è l’unica cosa concreta finchè sei in questo mondo.Ti abbraccio forte, ti sono vicino ogni giorno e potrai sempre contare su di me. Tuo Gianni