Marx e il torto delle cose, di Michele Castaldo

E’ uscito in questi giorni, ed è nelle librerie, un nuovo libro: Marx e il torto delle cose.  Ed. Colibrì

Qui potete vedere la Prima di copertina   e  qui  la quarta di copertina

L’autore è Michele Castaldo un compagno e un amico che conosco da tempo, attivo nel conflitto di classe da molti anni.

In questo 2017 ricorrono i cento anni dalla rivoluzione di febbraio in Russia, e dall’insurrezione dei soviet dell’ottobre 1917. Ma non la celebrazione della ricorrenza ha mosso Michele ad analizzare alcuni nodi della teoria e della pratica rivoluzionaria che ha caratterizzato l’ottobre russo, e prima ancora la Comune di Parigi, ma la volontà di portare alla ribalta delle questioni per evidenziarne problemi ancora aperti e irrisolti nel percorso rivoluzionario.

Le righe che seguono sono alcune mie considerazioni, nella forma di articolo o, se volete,  recensione, sul lavoro di Michele.  In fondo all’articolo trovate un link per andare a leggere la Prefazione, scritta da Michele, al libro. Buona lettura                                         Salvatore

Marx e il torto delle cose di Michele Castaldo.

«Ho inteso ripercorrere, – scrive Michele – insieme alla Comune di Parigi della primavera del 1871 – che per Marx disvelò il senso della dittatura del proletariato –  la Rivoluzione russa, che per Lenin avrebbe potuto evitare la tragica sconfitta subita dai comunardi a causa delle mutate condizioni storiche». (Prefazione)

Il libro ripercorre, in 448 pagine, gli eventi della rivoluzione in Russia del 1917, quelli che precedettero e seguirono i giorni dell’insurrezione del 25 ottobre (7 novembre), e ci restituisce il dibattito teorico e le dispute politiche di quei giorni. Giorni memorabili, in cui i rivoluzionari cercarono soluzioni ai problemi che aumentavano giorno dopo giorno, ora dopo ora, e sembravano insormontabili.

Michele così esplicita l’obiettivo del suo lavoro: «il presente lavoro si caratterizza come un tentativo di interrogarsi sull’esistenza o meno del libero arbitrio dell’uomo nei processi sociali. Ci siamo interrogati sull’ineluttabilità del modo di produzione capitalistico e sul ruolo in esso svolto dalle componenti sociali … » e continua «che il moto-modo di produzione capitalistico diviene vero e proprio soggetto storico, creato dall’uomo in maniera del tutto inconsapevole, di cui lo stesso uomo finisce per divenire schiavo e rincorrerlo come la propria ombra: essere cioè da lui diretto piuttosto che dirigerlo. (Cap XI)

Dopo ci torneremo sulla questione del “libero arbitrio”. Seguiamo l’esposizione di Michele. Dalla situazione economica, uscita disastrata dalla guerra e dalla lacerazione dei rapporti sociali precedenti, con la popolazione piegata da ristrettezze, i bolscevichi hanno cercato di far coesistere le necessità di chi aveva fatto la rivoluzione, proletari e contadini, con la pressione dell’economia verso l’accumulazione capitalista che urgeva, ora liberata del tutto dai vincoli feudali,  «… l’arretratezza della Russia e la necessità di mettersi al passo con l’Occidente, alla ricerca di un’accumulazione originaria nel modo di produzione capitalistico, abbia provocato prima la riforma agraria del 1861, poi la rivoluzione antifeudale del 1917, che secondo Lenin avrebbe potuto introdurre il socialismo». (Cap XI)

Le scelte furono in qualche modo obbligate, ma non tutte, e fecero perno sul cambiamento di proprietà dei mezzi di produzione, da privati a statali. Evidentemente c’era la convinzione che quel cambiamento avrebbe creato i presupposti per un ribaltamento dei rapporti tra le classi e l’abbattimento del capitalismo. Ma scrive Michele: «Pertanto com’è dubbia la tesi secondo la quale la borghesia sarebbe stata il soggetto che avrebbe introdotto il modo di produzione capitalistico, secondo un certo marxismo, allo stesso modo è da ritenersi idealistica l’ipotesi che il proletariato possa abbattere la borghesia, impadronirsi dei mezzi di produzione e istituire il comunismo; perché sul piano storico in discussione non è la proprietà dei mezzi di produzione, ma il modo di produzione che li esprime. Il che cambia totalmente l’ordine dei fattori». (Cap XI)

Va tenuto in considerazione il convincimento dei rivoluzionari di allora che quella russa sarebbe stato l’avvio di una deflagrazione mondiale, con rivoluzioni che si sarebbero succedute, prossima quella della Germania, che infatti si mise in moto. Una convinzione, dice Michele, che sfiorava la fede, al punto che quando il proletariato in quel tale paese non rispettava la “missione storica” di fare la rivoluzione, si parlava di “tradimento” o comunque di “esser venuto meno a un compito storico”:  « Le ragioni oggettive per l’impossibilità di una corretta democrazia e una fiorente economia socialista sarebbero da ricercarsi nel comportamento del proletariato tedesco, dice la Luxemburg, per essersi schierato con la propria borghesia nella guerra contro la Russia. Si torna così al punto di partenza, assegnando a una classe, il proletariato, un ruolo storico da svolgere, e se non lo svolge lo si condanna per esservisi sottratto. Si tratta di una questione teorica cruciale, dalla quale si elaborano altrettante teorie che poggiano tutte su quel mitico ruolo storico del proletariato, che secondo Marx a un certo punto diviene classe operaia per sé e dà l’assalto rivoluzionario alla cittadella borghese appropriandosi dei mezzi di produzioni». (Cap IX)

Non si tratta di cercare i traditori, scrive Michele, oppure di andare a caccia delle deviazioni dalla “corretta via”, e nemmeno additare i sabotatori colpevoli di perseguire una linea sbagliata. La colpa, ma qui non si usa questa parola bensì quella di errore, è stato di aver pensato di poter rivoluzionare la società russa, che si trovava allo stadio di iniziale sviluppo capitalistico, operando come rivoluzionari sui meccanismi politico-istituzionali, infrangendo e ricostruendo rapporti politici e militari tra le classi, modificando i sistemi di proprietà dei mezzi di produzione, da privati a statali, ma non riuscendo ad affrontare il vero problema, ossia la distruzione del modo di produzione capitalistico, per sostituirlo con un altro modo di produrre in grado di soddisfare le necessità e i desideri dell’umanità.

   Secondo Michele è questo il nocciolo del problema: «Ecco il grande equivoco storico sul quale si incentra il nostro lavoro: era superata la fase borghese della rivoluzione o la fase semifeudale del modo di produzione? A nostro modo di vedere l’insurrezione di febbraio aveva abbattuto le barriere, per così dire, politiche con la messa in fuga dello zar, e aperto la strada in maniera definitiva al modo di produzione capitalistico e a uno sviluppo democratico della vita sociale; mentre l’insurrezione di ottobre completava l’opera da un punto di vista ancora strutturale con la confisca delle terre e la loro assegnazione ai contadini. Dunque l’ottobre rappresentava la seconda fase della rivoluzione la cui natura non poteva che essere capitalistico-borghese. La “doppia” fase della rivoluzione è tutta all’interno di quella stessa natura e riguarda non la proprietà dei mezzi di produzione, ma la confisca e l’assegnazione della terra».

«Il punto in questione è che il proletariato non può impadronirsi di qualcosa che deve distruggere, perché lo Stato non è il parlamento o l’Assemblea costituente, ma le leggi che regolano i rapporti di proprietà del modo di produzione e gli apparati burocratici e militari che li garantiscono. Come farebbe il proletariato a impadronirsi dello Stato? Si pone allora non il problema di impadronirsi dello Stato borghese, ma della sua distruzione. In che modo? E’ la domanda molto complessa alla quale bisogna cercare di rispondere. Si pone allora la seguente domanda: è la macchina dello Stato che bisogna spezzare o il modo di produzione che l’ha prodotta e la tiene in vita? Insomma: il vero nemico delle classi oppresse è il capitalista o il capitalismo?» (Cap IX)

Eccoci al punto, secondo me. E la domanda che mi pongo è questa: perché è stato abbandonato l’obiettivo strategico che, inizialmente, i bolscevichi e i militanti dei soviet, si erano dati e su cui hanno lavorato per anni? Perché non si è proseguito nella distruzione dell’apparato statale con pratiche forti? Perché non si è condotto con determinazione l’eliminazione dell’armamentario giuridico, con gli annessi apparati polizieschi, processuali, repressivi, con i codici penali e le galere? Perché non sono stati sostituiti con organismi espressione diretta della volontà proletaria, ossia i consigli, i soviet?

Questo passaggio, l’abbandono dell’obiettivo strategico della distruzione dell’apparato statale e del sistema giuridico, secondo me, non è stato dettato e imposto da condizioni oggettive. È stata una scelta politica aver abbandonato l’opera per l’estinzione/deperimento della forma-diritto, della forma giuridica, nonché della forma-Stato, che avrebbe aperto le porte alla ricerca di modi d’essere, di relazioni e di tecniche diverse da quelle capitalistiche, per mettere in pratica, gradualmente, un modo di produrre completamente alternativo, basato non sul lavoro salariato ma sull’attività libera e creativa. Si trattava e si tratta, di abolire il lavoro salariato. Quante volte è stato gridato, nel secolo scorso, dalla classe operaia in tutto il mondo, davanti ai cancelli delle fabbriche e nelle strade!

Invece è successo che, a un certo punto, tra i rivoluzionari russi, è prevalsa la scelta di affrontare i meccanismi politico-istituzionali per impossessarsene e cercare di cambiare, da questi, il corso politico a favore degli interessi del proletariato. Aggiungendo a questo soltanto il cambiamento della forma giuridica della proprietà dei mezzi di produzione, da privati a statali e la pianificazione dell’economia e poco altro. Così si è puntato alla costruzione dello “stato operaio” (che poi, secondo alcuni è stato “deformato” o “degenerato”). Alle istituzioni è stata fatta indossare una veste “proletaria”. Con queste scelte è stata abbandonata la rivoluzione, consentendo ai meccanismi capitalistici di continuare ad operare e chiedere, di volta in volta, pesantemente il conto.

Eppure grande attenzione era stata riservata dalle rivoluzionarie e dai rivoluzionari di quel tempo alla trasformazione di ogni aspetto della vita sociale. Sia i rapporti collettivi, sia quelli personali e anche affettivi, così le forme dell’arte, dell’abitare la città, di impegnarsi in attività lavorative non salariate, dell’agire della vita umana in forma collettiva o intima, tutto veniva messo in cantiere per una trasformazione totale. In gran parte queste trasformazioni sono state avviate. Ad esempio la Kollontaj che riflette sui cambiamenti dei rapporti d’amore, Malevic che rivoluziona l’arte pittorica, per non parlare di Majakóvskij e tante e tanti altri i cui nominativi riempirebbero decine e decine di pagine. Cambiamenti che hanno coinvolto l’agire delle persone russe, modificandolo in maniera importante. Un cambiamento che, in assenza della rivoluzione, avrebbe impiegato secoli per affermarsi. È stato realmente un movimento che ha iniziato a cambiare lo stato di cose presenti, e si è diffuso rapidamente in tutto il pianeta. Poi, è stato fermato.

Qui arriviamo al secondo punto. Secondo me, questo enorme progetto non poteva convivere con il ripristino dello “stato”, anche se ad esso si aggiungeva l’aggettivo “operaio” o “proletario”, né con il mantenimento, addirittura ampliato, del sistema giuridico, repressivo.

Quindi, Michele, sono d’accordo con te che il potere sovietico non ha messo in atto un percorso strategico e pratiche adeguate per distruggere il modo di produzione capitalistico. Ma la distruzione di quel modo di produzione non poteva realizzarsi d’emblée, di primo acchito. Secondo me, poteva essere una tappa di un percorso che si fosse occupato della distruzione di tutte le basi e le strutture su cui si reggeva e si riproduceva il capitalismo. Ci sarebbe voluto del tempo, certo, e sarebbe stata necessaria una transizione complessa, da una fase a un’altra.

Concordo con te, Michele, che un errore è stato aver assegnato al cambiamento di proprietà dei mezzi di produzione, da privati a statali, un valore che non poteva rivestire. In molti paesi c’era già un forte intervento pubblico nell’economia, con aziende di proprietà statale. La socialdemocrazia, nel Novecento, ne ha fatto un suo cavallo di battaglia.

A questo punto possiamo inserire la nostra esperienza materiale. Andare a scuola dalla realtà è un obbligo per i comunisti! Una realtà, quella italiana, non paragonabile alla Russia nel 1917. Negli anni Settanta del secolo scorso, però, abbiamo visto settori importanti della classe operaia e del proletariato dei quartieri energicamente impegnati in lotte immediate in difesa dagli attacchi padronali. E, via via, lottando, noi appartenenti alle classi subalterne, scoprivamo che la risoluzione dei problemi su cui lottavamo non trovava risposta soltanto nel posto di lavoro o nel territorio, se non in piccola parte e temporaneamente. Mentre invece quei problemi erano tutti interni all’assetto capitalistico. È successo!, lo ricordiamo bene! Difatti ci siamo messi all’opera per scalzare il dominio capitalistico e cambiare la società. Avevano capito che la nostra liberazione, il nostro affrancamento sarebbe avvenuto solo liberandoci dal capitalismo. È avvenuto! In maniera ancora più massiccia, è accaduto nella Germania degli anni Venti. Negli Usa dei primi anni del secolo scorso con gli IWW (Industrial Workers of the World). Quindi succede, l’abbiamo visto, vi abbiamo partecipato. Può succedere.

Io ho imparato da quelle pratiche che la lotta di classe, se condotta con il massimo delle aspirazioni umane e della volontà di cambiamento, può portare alla messa in discussione del capitalismo, allo smantellamento dell’apparato statale e repressivo e dell’apparato giuridico borghese. Cioè dell’insieme delle leggi, dei regolamenti, delle norme, dei rituali, delle liturgie consuetudinarie dell’ordinamento giuridico e istituzionale, che erano allora, e sono tutt’ora, la garanzia della riproduzione del sistema capitalistico, quindi dello sfruttamento, del mantenimento del lavoro salariato, dell’alienazione e della forza-lavoro scambiata come merce.

Aver optato per la costruzione dello “Stato operaio” o “proletario” per i rivoluzionari russi, e tutti gli altri che li hanno seguiti, ha significato voler mantenere un sistema produttivo basato su un capitale che investe (pubblico o privato, nella fase in cui i Soviet sono al potere, fa poca differenza) e una forza lavoro che si vende per un salario, anche se un po’ più alto, soprattutto quello indiretto (casa, sanità, servizi, ecc.). È lo stesso percorso che hanno tentato nel secondo dopoguerra alcune socialdemocrazie europee progressiste, come quella svedese di Olof Palme. Quel salario operaio, anche se più alto della media, comunque continuava a essere dettato dal mercato, indirettamente, a causa dello scambio di merci tra l’area rivoluzionaria e l’area capitalistica.

Sono grandi questioni ancora aperte e non risolte. In questi primi anni del XXI secolo, in Italia, ma anche altrove, una parte dei movimenti, che pure si definiscono rivoluzionari, agiscono il conflitto per inserirsi nelle strutture dei governi locali prima e poi nazionali, illudendosi di  realizzare una diversa distribuzione della ricchezza, più egualitaria. È molto presente, purtroppo, la convinzione che sia possibile cambiare il sistema sociale, diminuire lo sfruttamento, l’ineguaglianza, l’oppressione, l’accumulazione, ecc., con una diversa politica distributiva. Ne è seguito l’impegno a cercare di modificare alcuni meccanismi istituzionali, le forme o le composizioni dei governi per raggiungere questi risultati. È pura sconsideratezza, perché lasciando operare con i suoi meccanismi il capitalismo, quello sfruttamento e quella diseguaglianza si riproducono, piaccia o non piaccia. È stato dimenticato addirittura l’obiettivo assai chiaro e presente tra i bolscevichi, almeno nei primi anni venti, che «il comunismo non significa la vittoria del diritto socialista, ma la vittoria del socialismo su qualsiasi diritto, in quanto con l’abolizione delle classi e dei loro interessi antagonistici il diritto scomparirà del tutto» [Peteris Stucka, dal 1921 fu vice-Commissario del popolo per la Giustizia, nel 1920 e divenne membro del Comitato esecutivo del Comintern].  E ancora «il diritto è l’espressione di rapporti di classe tipici del sistema produttivo capitalistico. Il diritto borghese accoglie una nozione di individuo che corrisponde a quella di soggetto economico, compratore o venditore, operante su un mercato» [Evgenij Pašukanis direttore dell’Istituto per il diritto sovietico dal 1931, nel 1936 Commissario del popolo per la giustizia].

Ma anche Stucka e Pašukanis, e tanti altri, furono costretti a cambiare le loro posizioni o morire in Siberia. Non certo perché spinti dalle condizioni oggettive, bensì dai cambiamenti ai vertici del partito.

La Russia dello “stato operaio”, delle “leggi proletarie”, in realtà ha aderito in pieno alle tesi dei giuristi liberali più avanzati del Novecento, della scuola di Hans Kelsen (1881-1973), uno dei massimi giuristi liberal-borghese, ma anche filosofo del diritto. Kelsen esaltava la democrazia borghese e, nella sua opera principale “La dottrina pura del diritto“, affermava che il diritto si manifestava «come complesso di norme coattive imposte dalla classe dominante al fine di salvaguardare le relazioni sociali ad essa vantaggiose». Quindi la validità delle norme giuridiche, diceva, sarebbe stata efficace per qualsiasi sistema economico-sociale instaurato, perché avrebbe garantito, appunto, il gruppo sociale dominante. Il diritto, secondo Kelsen, va dunque inteso «come una tecnica speciale per l’organizzazione di un gruppo sociale». Per questo motivo irrideva i comunisti (di allora) che rifiutavano il diritto, perché affermava sarebbe servito anche a loro, quando avrebbero preso il potere. Non aveva capito che ai comunisti (di allora) non interessava mantenere un sistema di dominio sulla classe operaia, né su altri strati sociali. Ci rimase molto male, Kelsen, quando qualche professore universitario di diritto gli fece notare che ormai, siamo alla fine degli anni Trenta, anche in Unione Sovietica, i comunisti concordavano con le sue tesi, soprattutto Stalin e il suo procuratore Andrej Vyšinskij, persone non molto amate in occidente. Ora, a parte gli sbotti di bile, il triste è questo: dopo tanto combattere, con perdite umane enormi, si è ricaduti nella tela di ragno della teoria giuridica liberale.

Su questi aspetti Marx era stato chiarissimo: l’uguaglianza dei diritti è la condizione formale per lo sviluppo dei meccanismi di sfruttamento tipici del capitalismo, vale a dire che se non ci fosse la libertà della repubblica liberale-borghese non potrebbe nemmeno svilupparsi il libero contratto tra capitalista e operaio. E quindi lo sfruttamento capitalistico non esisterebbe. È proprio grazie all’uguaglianza giuridica e politica, scrive Marx, che al capitalista viene permesso di sfruttare l’operaio liberamente. Ne consegue che la repubblica liberale-borghese, nella prospettiva marxiana, non è un primo passo verso il socialismo, ma è, al contrario, l’habitat naturale dello sfruttamento capitalistico.

Il comunismo, per noi, non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà debba conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti […] Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su principi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe già in atto, di un movimento storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi ((Marx, Engels, Ideologia tedesca)

Con tutte le difficoltà e le aporie teoriche, tuttavia, caro Michele, bisogna dar loro atto che quell’avventura in Russia, era ben iniziata, purtroppo è terminata male. Si è interrotta. Io non penso che l’errore sia stato non aver voluto aspettare che la situazione maturasse. Qui riprendiamo il ragionamento sul “libero arbitrio”. Ho sempre pensato che se si fosse aderito rigidamente a questi canoni dell’attesa e della maturazione, nemmeno la schiavitù sarebbe stata abolita. Le condizioni oggettive si realizzano anche quando forze soggettive mettono in discussione e in movimento l’insieme dei legami e dei vincoli sociali. E non mi dite che è soggettivismo questo? Comunque non è attesa determinista!

Nella realtà conflittuale di oggi, da molte parti si cercano scorciatoie per lo più ridicole, e giù con le municipalità, i movimenti dei commons, il cognitariato e altri soggetti che dovrebbero riuscire là dove non è riuscita la classe operaia,

Teorie strampalate che non battono ciglio nell’utilizzare la tecnica, la scienza e i saperi e chi ne è portatore/trice, fingendo di ignorare che il capitalismo ha ridisegnato e plasmato tutto ciò al proprio uso. Dunque né la scienza, né la tecnica, né ogni altro sapere può essere utilizzato per null’altro, men che meno per un modo alternativo di produzione. È questo un elemento centrale in un percorso rivoluzionario. È l’essenza dell’analisi di Marx. In tempi recenti rielaborata e messa in atto efficacemente da Quaderni Rossi, con le analisi di Raniero Panzieri nei primi numeri nel 1961-62, (vedi: l’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, e altri scritti). Da allora la critica alla neutralità della scienza e della tecnica è stato il mezzo che abbiamo utilizzato per scalzare il consenso che le teorie del Pci trovavano tra le giovani generazioni. La critica alla neutralità della scienza e della tecnica è stato un punto di forza e di diffusione nel movimento che, a partire dal 1968, ha chiarito definitivamente che un processo rivoluzionario non potrà utilizzare, per tutto quello che di nuovo vuole costruire, né scienza, né tecnologia, con annessi tecnici ed esperti di quella scienza e tecnica di oggi e di domani e nemmeno istituzioni, poiché il loro operare è totalmente integrato e utile soltanto alla riproduzione del modo di produzione capitalistico.

Questo è stato un altro degli errori fatti dai rivoluzionari bolscevichi. Cosi scrive Michele: «Dunque il governo bolscevico accolse antichi funzionari dello Stato zarista e molti membri di altri partiti. Anzi sarà costretto ad affidarsi a ufficiali dell’esercito zarista contro le armate bianche occidentali e utilizzare i tecnici del periodo zarista per mandare avanti l’industria». (Cap IX)  Io aggiungo che venne introdotto anche il sistema Taylorista nelle fabbriche sovietiche, sulle spalle di chi quella rivoluzione aveva realizzato.

Un problema, questo, che ha attraversato la storia dell’umanità. Storia di lotte di classe, classi diverse da quelle attuali, liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, [Marx, Engels, Il Manifesto] con rivolte, tentativi rivoluzionari durissimi con costi enormi di vite umane e di devastazioni ambientali. La tragica storia dell’umanità, da sempre, si è imbarcata in sommosse e sollevazioni che hanno cercato di cambiare i gruppi dirigenti al governo; di sostituire un regnante con un altro; di cercare altre forme istituzionali: monarchia, oligarchia, repubblica presidenziale o parlamentare o partecipativa; rivolte e tumulti per imporre politiche distributive più ugualitarie al fine di contrastare la disuguaglianza crescente. Nel breve periodo raggiungendo anche qualche risultato, ma alla lunga non riuscendo a contenere la controffensiva capitalistica. Come sta a dimostrarlo la situazione di oggi.

Nel presentare il lavoro, nella Prefazione, Michele si pone questo interrogativo: “La classe operaia, pur subendo lo sfruttamento nel suo ruolo subordinato, proprio perché è una classe complementare perché dovrebbe abbattere il modo di produzione capitalistico come ipotizzato da Marx-Engels?”  inoltre  [   «… il proletariato non è solo vittima dello sfruttamento, ma si sente anche classe complementare di un processo produttivo e sociale al quale ritiene di non potersi sottrarre. (Engels, Antidühring)]

    A me sembra che questa domanda sconfini nel campo filosofico, perché porcela? Con quali dati di fatto possiamo rispondere? Finora la classe operaia ha lottato, con consapevolezza alterna e risultati altrettanto alterni; possiamo aggiungere -come Michele mette in risalto- prevalentemente per ritagliarsi condizioni migliori all’interno di un sistema che restava sostanzialmente nelle sue leggi fondamentali, ossia capitalistico. Ma abbiamo anche visto, come ricordavo prima che, la lotta quando cresce, si pone spesso, in rapporto alla produzione, per fermarla. Quanti atti di sabotaggio ha inventato e messo in pratica la classe operaia nella sua storia di lotte? È stata questa la pratica più diffusa, quando non era addormentata. Con quell’intuito grandioso, che ci fa ancora ben sperare, la classe operaia lottando per un tozzo di pane, ha capito che nella produzione c’è l’anima nera del capitalismo. E l’ha attaccata. Anche con gli zoccoli di legno, i sabot, lasciati scivolare negli ingranaggi. Proviamo a ripartire da lì.

Qui la Prefazione di Michele

Se volete contattare l’Autore per presentazioni del libro o per farvelo inviare, questi sono i contatti:
Michele Castaldo- Tel.  0671356039   Cell.  3280524928   Mail: castaldom45@gmail.com
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3 risposte a Marx e il torto delle cose, di Michele Castaldo

  1. sergio falcone ha detto:

    Rivoluzione sovietica. Con tutto il rispetto, a che serve resuscitare un cadavere? Meglio sarebbe riflettere sul fatto che tutte le rivoluzioni sono fallite.

    • Michele Castaldo ha detto:

      Caro compagno Sergio,
      non sono – come avrai ben capito – Gesù Cristo e non posso perciò resuscitare Lazzaro, dunque la rivoluzione russa. Il mio intento è quello di capire lo svolgersi dei fatti rispetto alle idee che intentiamo a essi sovrapporre con una finalità precisa: individuare una prospettiva storica nella quale svolgere un ruolo di sostegno alle lotte degli sfruttati e degli oppressi. Ti invito pertanto a leggere con maggiore serenità il mio scritto.
      Michele Castaldo

  2. sergio falcone ha detto:

    “Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani”, Lotta continua, 31 dicembre 1977.

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