35 anni fa il massacro di Sabra e Chatila. Non dimentichiamo!

Il 16 e il 18 settembre 1982, nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Chatila, alla periferia ovest di Beirut, 3.000 palestinesi furono uccisi dalle falangi cristiano maronite, dall’esercito del Libano del Sud e con il sostegno e la complicità di Israele, che aveva lanciato la sua operazione “Pace in Galilea”, invadendo il paese per la seconda volta.

Stefano Chiarini (1951 -2007) è stato un importante conoscitore delle aggressioni imperialiste verso il Medio Oriente, ed ha raccontato ciò che l’opinione pubblica dell’occidente non voleva ascoltare, come la tragedia palestinese. Nel gennaio 1991, durante la prima guerra del Golfo, è stato l’unico giornalista occidentale insieme con Peter Arnett della CNN a restare per un mese a Baghdad durante l’aggressione e i bombardamenti statunitensi. È stato corrispondente anche in Libano, Palestina, Iraq, e numerose altre aree di guerra.

All’inizio degli anni 2000 è stato fondatore e promotore dell’associazione Don’t forget Sabra e Chatila (Per non dimenticare Sabra e Chatila), dedicata al ricordo del massacro di Sabra e Chatila in Libano, che ne commemora annualmente l’anniversario a Beirut.

Quesllo che segue è un suo articolo su il Manifesto a 18 anni dal massacro

 

 

 

Attualità di un insulto alla vita e ai morti

Di Stefano Chiarini  su il Manifesto del 2 Settembre 2000

“L’assedio di Beirut, Sabra e Chatila: di là dalla nebbia del tempo resiste la memoria di quell’insulto alla vita. Un incubo, le fitte che dà una vecchia ferita quando si fa sera e di colpo piove e ti accorgi che è finita l’estate. E allora pensi ai vivi e ami i morti rimasti laggiù. A Beirut”. Così scriveva Igor Man a dieci anni dalla strage del 16 settembre 1982 nella quale, in una Beirut occupata dall’esercito israeliano, vennero uccisi oltre 2.000 palestinesi (e tra di loro anche non pochi libanesi) colpevoli  solo di essere stati cacciati dalla loro terra, la Palestina alcuni decenni prima.

Un massacro per il quale, in un mondo dove si parla sempre di crimini di guerra, nessuno ha pagato. Né degli esecutori, come l’allora capo dei servizi delle Falangi, Elie Hobeika che è stato fino a poco tempo fa ministro del governo libanese, diventato ora fedele servitore di Damasco come nell’82 lo era stato di Tel Aviv. Né dei mandanti come Ariel Sharon, l’allora ministro della difesa israeliano, che è di nuovo candidato alla leadership del Likud e a quella del suo paese. O come il generale Amos Yaron, che fece entrare i falangisti nei campi “per ripulirli dei terroristi” e che li sostenne logisticamente, illuminando con i bengala il campo per tutta la notte, bloccando vecchi, donne e bambini che tentavano la fuga e rimandandoli indietro verso morte sicura. E che è stato nominato da Ehud Barak direttore generale del ministero della difesa israeliano. Tutti sembrano voler cancellare non solo l’esistenza ma anche il ricordo dei profughi palestinesi uccisi in quel caldo giorno di settembre 1982.

Tutti transitano tranquillamente sull’autostrada che dall’aeroporto di Beirut (tra l’altro in quella zona dovrebbe esserci secondo il giornalista inglese Robert Fisk un’altra fossa comune) porta al centro della città senza neppure gettare uno sguardo verso Chatila. Un misero campo, nei pressi del nuovo gigantesco stadio, dove vivono ammassati in condizioni sub-umane 18.000 palestinesi.  E dove si trova la fossa comune con i corpi di centinaia di vittime del massacro. Uno sterrato pieno di immondizia.

Per i palestinesi non c’è rispetto da vivi. Ma neppure da morti. Del resto la Palestina non era forse una terra senza popolo per un popolo senza terra? E quindi quei tre milioni e mezzo di persone ufficialmente non esistono. Ed ancora meno esistono i 350.000 profughi in Libano provenienti dalle fertili terre della Galilea.

Non esistono al mondo e non esistono al tavolo delle trattative nonostante la risoluzione 194 stabilisca il loro diritto a tornare nel proprio paese.

In un momento storico come quello attuale nel quale una guerra devastante contro la Serbia è stata giustificata proprio –nelle parole di Massimo D’Alema- “per riportare i profughi alla loro case in condizioni di sicurezza”.

E i palestinesi? Il mondo pensa veramente che si possa arrivare alla pace ignorando la loro esistenza? Il mondo pensa veramente che si possa continuare a negare loro una casa, un lavoro e, nel caso di Chatila, anche una sepoltura?

Noi del manifesto non lo pensiamo. E abbiamo deciso di batterci perché il ricordo di quei morti non vada perduto. Che venga data loro una degna sepoltura. E siamo stati sommersi di lettere di sostegno. Una risposta che è ancora una speranza di giustizia. Se ognuno portasse a Chatila un fiore nessuno potrebbe più ignorare quella fossa.  Per quanto ci riguarda il sedici settembre noi saremo lì con il “nostro fiore dall’odore del sangue ma anche del gelsomini”.

 

 

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